Per capire cos’è il coraggio, ricordiamo Giancarlo Siani e guardiamo Fortapàsc
A distanza di 34 anni dalla sua morte, Siani resta un simbolo della lotta seria alla criminalità organizzata, in un paese in cui le parate contano più dell’impegno concreto

Sasà: Ci stanno i cani e ci stanno i padroni. Tu che vo’ fa’? U cane o u padrone?
Giancarlo Siani: Nessuno dei due… Io voglio fare il giornalista
Sasà: […] E magari vuoi fare pure il giornalista giornalista. Perché anche qua ci stanno due categorie… Ci stanno i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati
Dialogo fra Sasà (Ernesto Mahieux) e Giancarlo Siani (Libero de Rienzo), tratto da Fortapàsc, di Marco Risi, 2009
Per qualunque ragazzo/a che si approccia al giornalismo, non al gossip, Giancarlo Siani dovrebbe rappresentare il simbolo dell’attività impegnata che ha sacrificato la sua vita per raccontare la verità. Le sue inchieste si svilupparono nel territorio compreso fra Torre Annunziata e Napoli, ma la tecnica e la passione che lo animavano vanno aldilà dei confini regionali, facendo di lui un professionista di razza (a prescindere dall’inquadramento contrattuale, che ovviamente non costituisce l’essenza del giornalista).
Lo scorso maggio ho citato dei dialoghi tratti da I cento passi, in occasione dell’anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato, e vorrei riproporre lo stesso “format” ogni qualvolta un film, conciliando fiction e realtà, riesce nell’obiettivo non solo di raccontare la storia di una vittima della criminalità organizzata, quanto in quello di descrivere la realtà in cui gli eventi si sono sviluppati e Fortapàsc di Marco Risi (con sceneggiatura dello stesso regista e autori quali Andrea Purgatori) rappresenta un bel prodotto del cinema italiano.
Nel caso di Siani, interpretato sullo schermo da un bravissimo Libero de Rienzo, non soltanto le inchieste sul clan Gionta, ma gli articoli incentrati sui rapporti fra camorra e politica, hanno verosimilmente decretato la sua fama ma anche la sua condanna a morte.
Il comune ha avuto la bellezza di 22 miliardi di lire per la ricostruzione, eppure sono cinque anni che i lavori come cominciano si fermano. Chi ha vinto le gare sta in villa e i terremotati nei container. Poi, tutte le gare sono state vinte con poche migliaia di lire di scarto… Non è strano signor sindaco?.
(Libero de Rienzo nel ruolo di Giancarlo Siani, in Fortapàsc, di Marco Risi, 2009)
Il fatto che sia stato il solo giornalista ucciso dalla Camorra non significa che non ce ne siano stati altri che non abbiano fatto il loro dovere, ma ammazzare un cronista di razza è rischioso e può rivelarsi fatale per il “sistema” e così diviene un fatto eclatante. E la sua storia, con tutte le differenze del caso, ricorda quella di Peppino Impastato, ucciso a Cinisi nel 1978 all’età di trent’anni, dopo aver denunciato attraverso Radio Out traffici di eroina e malaffare.
Come nel caso di Peppino, anche l’omicidio di Siani subì dei depistaggi (per il modo con cui era stata architettata l’esecuzione), non proprio eclatanti come quelli del caso Impastato, ma comunque importanti, tanto che le indagini furono spostate su un movente passionale. Come ha dichiarato il pentito Ferdinando Cataldo ai microfoni della trasmissione La storia siamo noi condotta da Giovanni Minoli, Giancarlo fu ucciso a Napoli, nel quartiere del Vomero, non a Torre Annunziata o a Scampia, e peraltro con una pistola calibro 7,65, non una calibro 9, arma invece spesso utilizzata per firmare un omicidio. Pertanto, l’inchiesta fu riaperta solo 9 anni dopo, in seguito alle dichiarazioni del pentito Salvatore Migliorino al Pubblico Ministero Armando d’Alterio.
Non solo gli articoli sulla guerra fra il clan dei Gionta e quello dei Nuvoletta (con quest’ultimo vicino ai Corleonesi), ma anche le ricerche precedenti sui rapporti e gli affari fra criminali e colletti bianchi, hanno fatto di Siani un ostacolo che fu eliminato il 23 settembre 1985, 4 giorni dopo il suo ventiseiesimo compleanno.
Nonostante le differenze caratteriali, ideologiche e i diversi approcci nell’attaccare la criminalità organizzata, sia Giancarlo che Peppino hanno avuto in comune il coraggio e il fatto di essere stati uccisi giovanissimi e di essere diventati dei miti, anche se per Peppino le cose andarono diversamente, dato che subito dopo la sua morte fu considerato un terrorista, oltre che suicida.
Erano molto scomodi, il primo attraverso la carta stampata, il secondo con la radio, disturbarono gli affari illeciti rispettivamente Camorra e Mafia in territori in cui l’omertà era e, per molti versi lo è ancora, un modo non solo di vivere, ma per sopravvivere.
Per convenienza o per reali questioni di sopravvivenza, denunciare non era spesso possibile, e, dove lo Stato non è presente in modo adeguato, non solo nella sua funzione punitiva, bensì nell’offrire servizi e aiuto socio-economico a chi vuole vivere onestamente, senza essere sfruttato o cadere nelle mani della delinquenza pur di mangiare, le Mafie crescono e trovano appoggio, anche per paura di ritorsioni o per pura sussistenza dei ceti svantaggiati. Così, il giornalista vero, resta razionalmente una speranza per il territorio, ma, come disse Ernesto Mahieux nel film, nel ruolo del caporedattore Sasà:
[…] i giornalisti giornalisti, quelli so’ tutt’ n’atra cosa Giancà… Quelli portano le notizie, gli scoop e non sempre si devono aspettare gli applausi della redazione, no? Perché le notizie, gli scoop, so’ na rottura i cazz’! Che fann’ mal’, fanno mal’ assai. E allora, se ti posso dare un consiglio, sta a sentì a Sasà… L’inchiesta che stai facendo, io non ne voglio sapere niente… E dà retta a me… Questo non è un paese per giornalisti giornalisti… Chist’ è nu paese per giornalisti impiegati.
(Sasà in Fortapàsc, di Marco Risi, 2009)
Non è raro che a chi si occupa di legalità viene spesso fatto il vuoto intorno, anzi, è molto frequente e, quando accade ciò, la mafia, sia quella militare che quella bianca colpisce, distruggendoti fisicamente e/o psicologicamente, facendoti indietreggiare o scomparire. E ciò non capita solo ai giornalisti giornalisti, bensì anche a Uomini e Donne degne di questo nome, che nel portare, o anche con la semplice volontà di fare uscire allo scoperto relazioni e compenetrazioni pericolose fra colletti bianchi e la borghesia mafiosa (o la zona grigia), hanno finito di vivere letteralmente o metaforicamente, portando a termine relazioni sociali, di amicizia e lavorative, con una vita distrutta (e mi riferisco anche solo a chi ha semplicemente saputo suo malgrado di legami o fatti pericolosi che avrebbero potuto mettere a soqquadro equilibri sedimentati nel tempo).
La storia è piena di onesti cittadini la cui memoria è stata infangata o che sono stati puniti per non essersi voluti piegare alla Mafia (non solo quella militare), la quale in molti casi era, è stata ed è unita in un connubio inestricabile con elementi dello Stato o della politica o, se non proprio dello Stato, della società civile e dei “galantuomini” che offrono servizi e/o lavoro e con lo Stato collaborano o hanno collaborato.
Oltre all’uccisione, la Mafia (soprattutto quella in giacca e cravatta) può usare altre armi, quali: la legge utilizzata come mezzo per minacciare e incutere paura invece che come strumento per difendersi, lo stigma e il mobbing sociale per isolare e quello lavorativo per distruggere sotto il profilo economico, la calunnia per porre in ridicolo in modo preventivo brava gente in grado di aprire una breccia in anni di omertà, lo stalking tramite cui mettere pressione a cittadini/e e alle loro rispettive famiglie, oltre ad altre tecniche subdole che possono, in alcuni casi, condurre a un autentico “ghosting” o al suicidio.
Pertanto, la frase: Questo non è un paese per giornalisti giornalisti… Chist’ è nu paese per giornalisti impiegati, può risultare per alcuni versi limitativa, in quanto, per la storia e gli scandali italiani, potrebbe essere estesa a:
questo non è un paese per cittadini cittadini, ma per sudditi o cortigiani.
Come in altre circostanze, mi viene in mente Il ritorno del principe di Roberto Scarpinato, libro in cui il magistrato siciliano mette in risalto il rischio per le fondamenta di uno Stato di diritto parlando di «Neofeudalesimo italiano», come sistema in cui una società è asservita non a una Res Publica, bensì a singoli «padrini o padroni».
Ovviamente, in una situazione del genere le mafie si rafforzano, e quando trovano un substrato che accetta la compenetrazione fra potere legale e illegale, legittimo e illegittimo, si viene a creare un connubio difficilmente scalfibile, se non attraverso l’impegno di tutti, non lasciando soli coloro i quali lottano contro il malaffare, anche quello più insospettabile, a causa di cui vengono isolati e distrutti. E non lo si fa soltanto durante la commemorazione delle vittime di mafia, perché sarebbe solo un modo ipocrita di lavarsi la coscienza continuando ad agire e a vivere senza cambiare nulla, disonorando coloro i quali hanno pagato con la vita il loro impegno civico.
(Curiosità: sia ne I cento Passi, che in Fortapàsc, l’attore siciliano Mimmo Mignemi interpreta il ruolo del carabiniere che entra in “contrasto” con il protagonista. Nell’opera di Giordana è il maresciallo, in quella di Risi è l’agente Cifù).