Le manifestazioni non bastano: senza giustizia sociale non si contrastano le mafie
Si organizzano parate e cerimonie volte a commemorare le vittime di mafia, ma spesso si dimentica che il motivo per cui migliaia di cittadini si avvicinano al crimine organizzato, costituendone la manovalanza, è l’indigenza economica, che toglie speranze e dignità. Lottare per la giustizia sociale è fondamentale per sconfiggere le Mafie

Le manifestazioni non bastano: senza giustizia sociale non si contrastano le mafie
Si organizzano parate e cerimonie volte a commemorare le vittime di mafia, ma spesso si dimentica che il motivo per cui migliaia di cittadini si avvicinano al crimine organizzato, costituendone la manovalanza, è l’indigenza economica, che toglie speranze e dignità. Lottare per la giustizia sociale è fondamentale per sconfiggere le Mafie

di Francesco Carini

L’onestà dei carabinieri, il coraggio non serve, o meglio serve, certo serve a fermare, a bloccare il fenomeno, ma soprattutto c’è la necessità assoluta di una grande opera che coinvolga tutte le nazioni per dare giustizia sociale al paese. Dare giustizia sociale al paese significa dare giustizia sociale soprattutto al Meridione, alla Sicilia, dove vive la metà del paese più infelice […].
(Pippo Fava, 20/12/1983, Palazzolo Acreide)

Il 21 marzo è il primo giorno di primavera, in concomitanza a cui si commemorano: la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, oltre che la giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale.
Anche se ci vorrebbe ben altro spazio, in passato su questo blog sono state trattate le tematiche in questione tramite storie e analisi riportate in articoli, oltre a sottolineare sempre l’importanza di un’azione volta a limitare le diseguaglianze che separano gli strati più abbienti della popolazione da quelli più poveri, gap storico e pienamente riscontrabile ben prima dello scoppio della pandemia di COVID-19, anche se nell’ultima decade simil intellettuali sostenevano dal pulpito di ricchi salotti che la povertà in Italia fosse quasi un’invenzione.

Al contrario, il giornalista catanese Pippo Fava rappresenta uno fra gli intellettuali più acuti e intelligenti che si siano mai occupati di mafia (e anche di miseria), pagando con la vita nel gennaio 1984 la sua onestà e il suo impegno. In una delle ultime apparizioni, precisamente in un discorso da lui tenuto davanti a una scolaresca di Palazzolo Acreide il 20 dicembre 1983, dichiarò:

Noi viviamo in una repubblica, voi me lo insegnate, è una “cosa comune”. La Repubblica ci appartiene, siamo noi e allora lottate, perché dentro questa repubblica ci sia giustizia. Perché se noi riusciremo veramente a fare giustizia, non giustizia nelle aule dei tribunali… Prima, giustizia dentro la società, giustizia per i poveri, per gli emarginati, per noi stessi, allora potremo essere sicuri di potere cominciare a sconfiggere la Mafia e soprattutto potremmo essere sicuri di essere veramente degli uomini che abbiano la loro dignità e la loro libertà.

In queste parole sono sintetizzati dei punti fondamentali per sviluppare un serio programma di lotta alla Mafia, combattuta con i mezzi che una democrazia e uno stato civile possono offrire, dal momento che non bastano parate e sguardi che si emozionano più o meno sinceramente (potenzialmente) per le colonne sonore in stile epic, inserite ad accompagnamento di video strappalacrime che commemorano nel giorno della loro morte vittime innocenti ed eroi noti come: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato, Pio La Torre, Giancarlo Siani, Pippo Fava, o meno conosciuti, quali Salvatore Carnevale e Pasquale Almerico. Tali iniziative sono importanti, anzi, fondamentali per sensibilizzare e informare su ciò che è accaduto, ma lasciano quasi il tempo che trovano quando non vengono “estirpate le radici” dell’avvicinamento al crimine organizzato da parte di cittadini in stato di grave indigenza, che ne potrebbero costituire la manovalanza.

È stato più di una volta indicato quanto diseguaglianze e povertà (per quanto non siano considerabili le sole cause) possano rappresentare un humus per l’avvicinamento delle fasce più deboli della popolazione sotto il profilo socio-economico alle mafie e che, nella storia, rapporti di potere impari hanno permesso alla criminalità organizzata di agire con una logica di compenetrazione all’interno delle strutture legali e nelle istituzioni, determinando una sfiducia nei confronti di queste ultime da parte di coloro i quali si trovano in basso, costretti a sopravvivere più che a vivere, e il cui unico compito è sempre stato quello di obbedire e tacere, soffocando il loro grido di disperazione e voglia di cambiamento realmente democratico, a meno che non venisse soffocato in anticipo direttamente con metodi legali o illegali, come nel caso dei Fasci siciliani (da non confondere con il fascismo), che subirono gravissime ritorsioni alla fine del secolo scorso.

Pertanto, è da evidenziare quanto politica e istituzioni siano state colpevoli nei decenni di non agire in modo da favorire le aspettative di una vita accettabile da parte di migliaia di onesti diseredati o anticipare l’avvicinamento al crimine organizzato di cittadini a rischio esclusione sociale. Come scrissero Jane e Peter Schneider nell’abstract dell’articolo Dalle guerre contadine alle guerre urbane: «il movimento antimafia a Palermo (pubblicato sulla rivista Meridiana nel 1996):

«riteniamo che i concetti di classe, relazioni di classe e lotta di classe, per quanto possano sembrare obsoleti, restino cruciali per comprendere la mafia […]».

La citazione può sembrare inopportuna in quanto legata a un’analisi di 25 anni fa, ma, guardando alla situazione odierna, appare più che attuale. Nella loro inchiesta Ripensare il clientelismo: una sfida dalla Palermo «antimafia» (pubblicato nel volume Antropologia del Mediterraneo a cura di D. Albera, A. Blok e C. Bromberger), sempre gli Schneider analizzarono il caso del capoluogo siciliano, soprattutto in seguito alla risposta positiva della cittadinanza alle stragi messe in atto dalla macrocriminalità, avvenuta spontaneamente anche grazie a forze progressiste siciliane. Però, intervistando intelligentemente nel 1996 un campione di famiglie operaie, fu riscontrata una spaccatura fra quella definibile come sinistra antimafia e questi cittadini, alcuni dei quali vedevano purtroppo nella mafia una sorta di stato sociale che garantiva lavoro, senza cui non avrebbero potuto sostentarsi.
Il passaggio da un’economia basata su un’edilizia selvaggia ad un’altra maggiormente sensibile alla tutela dell’ambiente, (giustamente) voluta dalle forze politiche in questione, pare non abbia comunque tenuto abbastanza conto delle necessità di larga parte della popolazione che si è trovata disoccupata e con familiari da mantenere. Come dichiarava uno degli intervistati, il «flusso del denaro della mafia» (che veniva fatto circolare tramite l’edilizia) non è stato sostituito da altro denaro, determinando l’incremento della: «miseria della gente». E questa situazione è potenzialmente estendibile universalmente ad altri centri urbani italiani (non solo a Palermo).

C’è un passaggio del volume Il ritorno del principe del magistrato Roberto Scarpinato, riferito all’Italia del XIX secolo, già citato in passato:

«tutta la ricchezza era concentrata in un ristretto numero di famiglie; al posto della cultura dei diritti esisteva quella dell’elemosina e del favore, uno statuto di cittadinanza era semplicemente inconcepibile».

In poche righe, il giudice siciliano riassume ciò che era il paese prima dell’affermarsi di un vero stato di diritto, ma, al contempo, può dipingere la situazione di molti ambienti in cui oggi, complice la crisi economica e il taglio di diritti sociali fondamentali, le mafie e un certo tipo di patronage attingono voti e obbedienza a piene mani soprattutto fra i ceti meno abbienti, che, per sopravvivere, devono “abbassare la testa”. Non si parla di vero e proprio consenso, perché c’è molta brava gente che non vorrebbe dipendere da determinati individui o certe organizzazioni, ma si trova costretta a non poter prendere posizione per paura di ritorsioni sia fisiche che di altro tipo, compreso il “mascariamento”, sostantivo legato al verbo “mascariare”, che comunemente è connesso al significato di “sporcare”, “imbrattare”, non soltanto in senso materiale, ma anche e soprattutto metaforico, con personaggi “uccisi” mentre erano ancora in vita tramite la vile arte della diffamazione o, come detto poc’anzi, del mascariamento.

È ovvio che, in una situazione impari, risulti molto più complicato per i diseredati difendersi, soprattutto se divisi, ed appaia grave lo sdegno “aristocratico” di parte di una pseudo intellighenzia nel non voler comprendere e di conseguenza abbattere o prevenire determinate dinamiche che conducono indigenti a cercare nel crimine organizzato ciò che non hanno trovato in uno Stato Sociale che dovrebbe essere avanzato.

Antonio Gramsci, nel suo Letteratura e vita nazionale, scriveva:

Gli «umili». Questa espressione – «gli umili» – è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della «letteratura per gli umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell’espressione dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevskij c’è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo che magari è «oggettivamente» costituito di «umili» ma deve essere liberato da questa «umiltà», trasformato, rigenerato. Nell’intellettuale italiano l’espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini nella vecchia pedagogia e peggio ancora un rapporto da «società protettrice degli animali», o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.

Non parlava di mafia, ma, per Gramsci, l’assimilazione degli “umili” a “simil bestie” da guardare dall’alto in basso (per certi versi come quello che capitava ai poveri di Leonardo Sciascia ne Le parrocchie di Regalpetra o agli “ultimi” di Pier Paolo Pasolini), con lo stigma sociale di partenza che rappresenta un forte handicap per lo sviluppo di un sistema autenticamente democratico o egualitario, costituisce un chiaro esempio di come, anche senza volontà reale, una determinata classe dirigente o intellettuale possa diventare carnefice di migliaia di subalterni “dati in pasto” al crimine organizzato, che in determinati contesti li userà sfruttandone la fame.

Anche se banditismo e mafia costituiscono due fenomeni ben differenti (nonostante quest’ultima si sia servita spesso delle “gesta” criminali di banditi), un grande intellettuale come Norberto Bobbio (sicuramente non un sobillatore), autore di vari volumi, scriveva nella prefazione di quello straordinario studio costituito da Banditi a Partinico di Danilo Dolci, in relazione all’opera e alla filosofia del sociologo friulano:

«Uno dei suoi ritornelli è che se ci sarà più lavoro ci saranno meno banditi. Coloro che leggono le gesta dei briganti nei giornali a sensazione sanno che a Partinico «nessuno dei fuorilegge era in grado, prima di diventare bandito, di mantenere sé e la famiglia»?  […] Lo sanno coloro che scrutano e soppesano e anatomizzano il bilancio dello Stato, che circa mezzo miliardo è stato speso per la repressione nella sola Montelepre e che con questo mezzo miliardo, senza uccidere nessuno e senza che nessuno “dell’ordine” fosse ucciso, si sarebbe potuto trasformare questo piccolo paese dandogli una spinta di vita per secoli?».

Davanti a pseudo-elucubrazioni, comizi davanti a platee più o meno virtuali e discorsi ad effetto disconnessi da una parte della realtà fatta di miseria per milioni di persone, su cui spesso si sentenzia senza cognizione di causa e in cui gli ultimi vengono visti solo in qualità di pedine o carne da macello (impegnati in guerre fra poveri o a rischio di infittire le fila di quella maledetta realtà costituita dal crimine organizzato), senza realizzare che possono invece costituire l’elemento cardine con cui portare avanti una battaglia culturale realmente democratica, tramite la quale combattere democraticamente un sistema di diseguaglianze e violenza sedimentato nei secoli, verrebbe nuovamente da pensare che in Italia ci sono amanti dei palcoscenici che:

«tornano a bestemmiare appena la processione è terminata, fedeli al santo, ma solo (o quasi) nel giorno di festa, quando è presente più gente».

 

Ovviamente il presente articolo non rappresenta una critica nei confronti delle manifestazioni in ricordo delle vittime di mafia, fondamentali per tenere vivo il ricordo di autentici martiri, ma un incentivo ad allargare il raggio d’azione alfine di anticipare l’ingresso fra le fila della criminalità organizzata di giovani e disperati che non possono essere lasciati soli a combattere due guerre: quella contro il malaffare e quella contro la “fame”. Prima di sputare facili sentenze, degne dei peggiori talk show pomeridiani, sarebbe il caso di andare a vedere come si vive nei quartieri o nelle zone più a rischio delle città italiane, dove spesso sono stati mandati in passato a morire esponenti delle forze dell’ordine (giovani e meno giovani) che hanno compiuto fino all’ultimo il loro dovere contro una realtà criminale che doveva essere combattuta prima, a livello politico ed economico, per toglierle consenso e dare una speranza di una vita normale ad intere generazioni la cui principale “colpa” è stata quella di nascere in determinati contesti.
Certamente non si tratta neanche di un’analisi completa sul tema, dal momento che, come è stato già indicato, non basta un articolo o un insieme di articoli per definire esattamente un problema così complesso (sarebbe impensabile), ma può essere un incentivo a riflettere e a porre al centro dell’attenzione l’importanza di una questione tanto antica quanto attuale.

21/03/2021 – © Francesco Carini – tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale.

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