“Uomini contro” oggi fra razzismo, povertà e disuguaglianza: «basta, con questa guerra di morti di fame contro morti di fame»
La Guerra fra poveri va combattuta attraverso una lotta contro ignoranza e povertà, non accanendosi sugli ultimi

Distribuito nelle sale cinematografiche nel 1970, Uomini contro è un film di Francesco Rosi ambientato durante la prima guerra mondiale. Sceneggiato da Tonino Guerra e liberamente ispirato al romanzo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, il lungometraggio ha fra i protagonisti uno straordinario Gian Maria Volonté nelle vesti del tenente Ottolenghi, socialista costretto ad assistere con gli altri soldati a decimazioni volute da parte del comando generale di commilitoni stanchi di combattere e farsi massacrare, che arriveranno ad avere la compassione da parte dell’esercito austriaco: «basta soldato italiano, non ti fa’ uccidere così. Tornate indietro, basta, basta», prima che Ottolenghi venga colpito a morte dal fuoco amico per volere del generale Leone, visto come un nemico da parte del tenente, considerando le missioni suicide imposte ai suoi uomini (questa scena non è quella finale, è poco dopo metà del film, che non ho intenzione di spoilerare per chi non lo avesse visto, sperando che ognuno di noi possa (ri)guardarlo).
Praticamente, ci si trova nella condizione in cui colui il quale dovrebbe guidare una compagnia sfrutta gli uomini a sua disposizione per i propri sogni di gloria disinteressandosi totalmente del loro destino, vedendo in loro delle pedine e non degli individui con una vita propria.
«Basta, con questa guerra di morti di fame contro morti di fame» (Tenente Ottolenghi, interpretato da Gian Maria Volonté in Uomini contro, di F. Rosi, 1970).
In queste parole di Ottolenghi pronunciate prima di morire, verosimilmente sta tutta la saggezza unita all’esasperazione di colui il quale ha visto il massacro di povera gente contro altra povera gente per le mire espansionistiche o l’egemonia di pochi, i cui interessi si nascondono dietro quello di nazione, ma per la tutela della quale alla lunga cambia poco o nulla in termini di benefici per coloro i quali la guerra la combattono realmente, anzi. Si potrebbe discutere del concetto di nazione, passando in rassegna le splendide panoramiche sul tema di studiosi come Benedict Anderson ed Eric Hobsbawm, ma si rischierebbe di allargare troppo il discorso. Però, mi viene in mente l’introduzione del volume Sarajevo, le radici dell’odio del prof. Stefano Bianchini, il quale scrive nelle prime pagine che ciò che è prevalso nella regione danubiano-balcanica nel XX secolo non è l’idea di una comunità quale quella mazziniana, quanto un’idea dettata da ragioni mistiche e in parte da eredità naturali (secondo un insegnamento “herderiano”).
Tuttavia, sottolinea che tale visione (con risultati pratici differenti) non è assolutamente da limitare all’Est Europeo, perché ci sono stati chiari esempi quali: il nazionalismo revanscista francese, l’anisemitismo manifestato nell’affaire Dreyfuss fino ad arrivare al caso del nazismo, rappresentante per eccellenza di un nazionalismo criminale misto al razzismo.
Pertanto, l’irrazionalità di alcune teorie e una propaganda portata avanti più o meno scientificamente alfine di scatenare l’odio di una parte della popolazione contro un’altra o contro una minoranza, dovrebbe far riflettere sulle tragedie determinate nel passato e sulla gravità di fatti di cronaca che vedono non di rado attacchi da parte di singoli o masse (spesso impoverite) nei confronti di altre, aizzate da politici e/o lobby alfine di avere sempre più potere, fatto per cui si assiste a: «una guerra di morti di fame contro morti di fame».
Comunque, oltre a considerare pericolosi questi soggetti che giocano sulla rabbia di settori impoveriti della popolazione e ignoranti coloro i quali, da sostenitori, stanno in prima linea a seminare odio sui social e nella realtà non virtuale (e questo è un dato oggettivo), cosa è stato fatto per evitare che si riproponessero situazioni che sembrano riportare agli anni più bui della storia d’Italia e d’Europa?
Non è stato fatto quasi nulla o il risultato è stato a dir poco insufficiente, e questo non è un fenomeno recente. In un paese come il nostro, dove l’ascensore sociale è bloccato, in pratica molto difficilmente il figlio di un operaio o di un piccolo commerciante potrà aspirare a carriere fulgide per colpa delle condizioni socioeconomiche di partenza, a parte delle eccezioni da analizzare singolarmente e senza mitizzazioni o storytelling che facciano da contorno.
Facendo un discorso più amplio, non solo in Italia, lo sfruttamento del lavoro, soprattutto delle fasce più povere della popolazione, ha sempre costituito lo zoccolo su cui costruire dei sistemi nei quali l’eguaglianza non era certamente l’interesse principale. Nel suo splendido L’autorità e la famiglia, Max Horkheimer, prendendo a riferimento paesi come Francia, Inghilterra e Olanda, in considerazione al periodo compreso fra il XVII e il XVIII secolo (ma il discorso generale del filosofo va oltre questo intervallo di tempo), scrive:
«era opinione diffusa che finché il lavoratore aveva un soldo in tasca, oppure il benché minimo credito, si abbandonasse al vizio e all’ozio, cioè in realtà, che non volesse sottomettersi a condizioni di lavoro massacranti».
A scanso di equivoci, tale esempio non è portato per assimilare sistemi politici differenti e distanti secoli, ma per sottolineare quanto l’interesse per le esigenze delle classi disagiate sia stato l’ultimo dei problemi per molti governi, pure in paesi economicamente avanzati, forse, forti anche per questo motivo.
Quindi, un sistema in cui la diseguaglianza è quasi istituzionalizzata e in paesi quale il nostro, dove la povertà è incrementata vertiginosamente nell’ultimo decennio, si sarebbero dovute porre le basi prima dello sfociare di fenomeni di razzismo e disumanità più che preoccupanti, che nel loro moltiplicarsi ormai appaiono quasi normali. Il “cattivismo” contro gli immigrati (assolutamente da denunciare non solo mediaticamente) potrebbe essere in molti casi (non tutti) legato al senso di rabbia da parte di milioni di cittadini che hanno visto sminuito il loro grido di bisogno dietro fredde analisi che non vedevano l’ingigantirsi di un’emergenza povertà diventata un pericolo più che reale e che, se non bloccata adeguatamente, può mettere a repentaglio le basi della democrazia a causa di scelte irrazionali per le quali il diretto interessato si troverà ad optare perché sentitosi preso in giro e/o abbandonato.
Non è un caso che lo zoccolo duro di certi movimenti che si ispirano a un quanto nebuloso nazionalismo, identificabile con un più o meno malcelato razzismo, sia costituito da gente con un basso livello di scolarizzazione, che non è per forza sinonimo di mancata voglia di studiare, bensì di condizioni socio-culturali non adeguate degli ambienti di provenienza.
Nel tanto citato e meraviglioso Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi si parla della responsabilità diretta per la crescita dei totalitarismi nella prima metà del XX secolo da parte di gruppi industriali e bancari che avevano sfruttato, alfine di tutelare e accrescere i propri interessi, gli incolpevoli ordinamenti democratici e liberali che così diventarono:
«lo strumento di cui questi gruppi si servivano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio e così, si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo le libertà popolari, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere» (Dal capitolo La crisi della civiltà moderna, tratto da Per un’Europa libera e unita – Il Manifesto di Ventotene).
Bisogna creare necessariamente le basi per una convivenza pacifica in cui ogni essere umano, indipendentemente dal luogo di provenienza sia tutelato nei suoi diritti basilari. Le manifestazioni di solidarietà per cittadini stranieri discriminati sono fondamentali in quanto stanno a significare che esiste ancora un briciolo di umanità nel nostro paese, ma rischiano di diventare ipocrite quando le stesse persone che giustamente si indignano per atti di becero e vergognoso razzismo e intolleranza si girano dall’altro lato di fronte al grido di connazionali che conducono esistenze inimmaginabili per le privazioni che sono e sono state costrette a sopportare. Proprio atteggiamenti di disinteresse come questi portati avanti anche da parte di una certa classe politica non solo italiana, definita negli ultimi anni eufemisticamente radical chic, ma considerabile indegna per il suo distacco dalla realtà (che avrebbe potuto prendere di petto l’emergenza e invece se n’è in parte disinteressata o non occupata adeguatamente), sono tra le possibili cause della guerra fra poveri, o meglio morti di fame, che non vedono un nemico nelle disuguaglianze bensì nel debole, il quale però rappresenta soltanto l’essenza riflessa e non accettata di sé stessi. E non basta neanche professarsi cristiani per giustificarsi, dal momento che il Cristianesimo, quello vero, non accetta né le discriminazioni razziali, né le politiche che costringono milioni di individui a piegarsi a condizioni lavorative misere e precarie pur di sopravvivere.
(Ovviamente, le cause del razzismo e della crescita di pericolosi movimenti anti-democratici non possono essere attribuite solo alla povertà, anche se quest’ultima resta una seria e concreta minaccia per la convivenza pacifica di milioni di cittadini; ma vanno combattute povertà e disuguaglianza, non i poveri e i soggetti a rischio di esclusione sociale. Questi sono vittime).