La mafia sfrutta la fame? Non ci voleva il Coronavirus per scoprirlo. Ricordiamo Pippo Fava e guardiamo La violenza: quinto potere
Le mafie hanno sempre sfruttato la povertà di cittadini indigenti per i loro obiettivi. Guardare l’opera di Vancini, tratta dalla pièce di Pippo Fava, può solo aiutare a comprenderne il dramma
La mafia sfrutta la fame? Non ci voleva il Coronavirus per scoprirlo. Ricordiamo Pippo Fava e guardiamo La violenza: quinto potere
Le mafie hanno sempre sfruttato la povertà di cittadini indigenti per i loro obiettivi. Guardare l’opera di Vancini, tratta dalla pièce di Pippo Fava, può solo aiutare a comprenderne il dramma
Homo Sum
La violenza: quinto potere, di Florestano Vancini, 1972
Procuratore: «Si sono sempre serviti di lei Giacalone, l’hanno sempre sfruttata in qualunque modo e tutto questo per poche briciole»
Giacalone: «Non è vero, mi hanno sempre aiutato».
Procuratore: «Si, però in cambio le hanno chiesto di caricarsi di un delitto che non lei non ha mai commesso e di rischiare 30 anni di galera».
Giacalone: «E pure se esco che ci dò a mangiare ai miei figli». (Dialogo tra Enrico Maria Salerno e Ciccio Ingrassia, rispettivamente PM e Giacalone, tratto da La violenza: quinto potere, di Florestano Vancini, 1972).
Nonostante le più che lecite preoccupazioni che le mafie possano rinforzarsi per l’emergenza determinata dalla diffusione del Coronavirus, a causa dell’impoverimento di larghe fasce dei cittadini italiani, la miseria è sempre stata sfruttata dal crimine organizzato e i timori da parte delle autorità e della politica, sia locale che nazionale, sarebbero dovuti arrivare ben prima, non solo adesso. La mafia, sia in Sicilia che altrove, conscia dell’assenza o della scarsa presenza di un efficiente stato sociale, ha spesso trovato terreno fertile fra gli strati più deboli della popolazione, facendo leva sui bisogni primari non di rado connessi alla sussistenza, assoldando manovalanza sfruttata e spremuta come limoni.
Naturalmente, la mafia ha anche goduto sin dai suoi albori di appoggi all’interno del settore pubblico, dei ceti più agiati e delle alte sfere del potere grazie una politica di collusione e compenetrazione che ha permesso di giocare nel tempo su altre necessità quale la fame da lavoro che, nel caso in cui non sia legata a pura sussistenza, è connessa ad altre esigenze (quale la realizzazione personale), veicolando l’assegnazione di impieghi e collocazioni, non a campieri con coppola o lupara, ma all’intermediazione di “rispettabili” galantuomini e gentil donne (non per forza mafiosi/e, ma vicini a determinati ambienti), che hanno deciso il destino di giovani e meno giovani, valutando parametri tutt’altro che meritocratici, gestendo fondi pubblici per scopi privati attraverso clientele e voti di scambio, e facendo, nella migliore delle ipotesi, il vuoto attorno a chi ha cercato o cerca di opporvisi, tramite i meccanismi delle minacce (più o meno velate), della calunnia e/o della diffamazione. Basti pensare a un dato fornito dalla Commissione Antimafia e citato in un interessante articolo pubblicato nel 1990 sulla rivista Meridiana a firma di Paola Monzini e Chiara Lupani, in cui si fa riferimento a numeri inquietanti in Sicilia:
«nel periodo che va dal 1947 al 1968, 8.237 delle 8.887 persone che sono entrate alle dipendenze della Regione sono state assunte senza concorso, e cioè sulla base di segnalazioni e di rapporti di amicizia e di fiducia. Inoltre sono state assunte persone condannate per vari reati di ogni genere, parenti di mafiosi o addirittura mafiosi stessi».
Naturalmente l’argomento mafia è molto complesso ed è stato trattato in letteratura in ambito storico, sociologico e anche antropologico, da importanti studiosi e autori fra i quali:Salvatore Lupo, Michele Pantalone, Anton Blok, citati in articoli pubblicati su Homo Sum per alcune loro opere. Ma, a parte gli addetti ai lavori, gli studenti o gli appassionati al tema, gli aspetti più drammatici di quella che Peppino Impastato definì: «montagna di merda» (la cui essenza non muta, sia in giacca e cravatta che in tuta) restano maggiormente impressi nella mente degli spettatori attraverso il cinema o il teatro per elementi come il coinvolgimento emozionale, rispetto a volumi nei quali sono sviscerati eventi, date e dati fondamentali (che naturalmente sono comunque essenziali per comprendere cosa sia stata e cosa sia la mafia).
Anche se il fenomeno mafioso è stato a volte falsato nello schermo, bisogna riconoscere che il cinema ha comunque avuto il merito di proporre questo problema alla coscienza degli italiani (Leonardo Sciascia, 1984).
A tal proposito, non sarà uno fra i film più conosciuti della cinematografia italiana, ma La violenza: quinto potere è una fra le pellicole di sicuro interesse sul tema. Tratto da LaViolenza, opera teatrale di Pippo Fava, il lungometraggio diretto da Florestano Vancini vede la partecipazione di attori straordinari, quali: Enrico Maria Salerno, Gastone Moschin e Riccardo Cucciolla. Nella quarta puntata del programma “Scrittori siciliani e cinema”, di Peppuccio Tornatore, andata in onda il primo marzo 1984 e dedicata al grande Leonardo Sciascia, lo stesso maestro di Racalmuto dichiarò:
«la mafia è argomento di noi che siamo nati in questa parte occidentale dell’isola e allora non abbiamo potuto fare a meno di occuparcene, in pochi tutto sommato […]».
Ecco, pur restando assieme a Luigi Pirandello il più grande scrittore siciliano del ‘900 e uno fra i più importanti a livello europeo, in quella dichiarazione (almeno nella parte montata dell’intervista) c’è una dimenticanza, perché Pippo Fava, nato a Palazzolo Acreide (Sr) e formatosi a Catania, se n’è occupato e pure a fondo, avendo avuto anche il merito di inserire nel discorso legato alla mafia un’analisi fondamentale su aspetti quali: «miseria, solitudine e ignoranza» (da lui definiti in un articolo pubblicato nel 1983 su “I siciliani”: «antichi e immutati dolori del Sud»). Tali fattori, in particolare la miseria (a cui spesso si collegano gli altri due), non dovrebbero mai essere dimenticati in un discorso più ampio in cui la violenza, non solo quella fisica, garantisce il perpetrarsi di un potere più o meno invisibile che stabilisce gerarchie e obbedienze. Giorno 20 dicembre 1983, 16 giorni prima del suo barbaro assassinio, Pippo Fava parlò così a Palazzolo Acreide davanti a una scolaresca:
Pippo Fava (fonte foto: Wikipedia)
«Noi viviamo in una repubblica, voi me lo insegnate, è una “cosa comune”. La Repubblica ci appartiene, siamo noi! E allora lottate, perché dentro questa repubblica ci sia giustizia. Perché se noi riusciremo veramente a fare giustizia, non giustizia nelle aule dei tribunali, prima, giustizia dentro la società, giustizia per i poveri, per gli emarginati, per noi stessi, allora potremo essere sicuri di potere cominciare a sconfiggere la mafia e soprattutto potremo essere sicuri di essere veramente degli uomini che abbiano la loro dignità e la loro libertà».
Parole come queste si materializzavano nei suoi articoli o in altri scritti, in quest’ultimo caso grazie a personaggi e storie, che, oltre a dar vita ad opere di valore dal punto di vista artistico, avevano ed hanno una grande valenza sotto il profilo sociale, costituendo un esempio concreto di quello che dovrebbe rappresentare un connubio indissolubile fra “educazione civica” ed arte. Non si vuole assolutamente togliere a quest’ultima la sua “autonomia” (Benedetto Croce docet), ma su certe tematiche, personaggi quali Pippo Fava hanno senz’altro dato un contributo superiore a quello di altri (non parlo di Leonardo Sciascia) e il suo pensiero non poteva che essere trasposto nel cinema da registi quale Florestano Vancini, che, citando le parole del prof. Gian Piero Brunetta (nel volume Il cinema italiano contemporaneo – Da “La dolce vita” a “Centochiodi”), assieme a Gianfranco de Bosio, i fratelli Taviani e Giuliano Montaldo, “usa un obiettivo”: «a grande profondità, capace di mettere a fuoco situazioni molto distanti nel tempo».
Il ferrarese pur essendo stato un grande regista che si è occupato lo stesso anno (1972) di Sicilia e degli ultimi anche in Bronte – Storie di un massacro (sceneggiato peraltro da Leonardo Sciascia), come scrive lo stesso Brunetta, assieme a Valerio Zurlini e Franco Brusati, può essere definito un autore di «seconda classe» (cit. Aldo Tassone), non per demeriti, ma perché la critica, nonostante le loro opere possano essere considerate importanti, non li ha mai ritenuti grandi cineasti, situazione che li accomuna ad altri colleghi come Giuseppe Castellani e Luigi Zampa, il quale, proprio come Vancini, ha tratto da un lavoro di Pippo Fava un soggetto per un suo film (Gente di rispetto, dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1975). Ma la notorietà dello scrittore siciliano assume altre dimensioni dopo la trasposizione cinematografica del romanzo Passione di Michele in Palermo o Wolfsburg, pellicola con cui il regista tedesco Werner Schroeter vinse nel 1980 l’Orso d’oro al festival di Berlino, facendo conoscere il dramma che sta dietro l’emigrazione di migliaia di meridionali.
Comunque, tornando a La violenza: quinto potere, l’aspetto che sconvolge maggiormente dell’opera è l’abilità di ricostruire nell’aula di un tribunale (dov’è in corso un processo), attraverso dei flashback, un quadro complesso in cui sono presenti quasi tutti gli aspetti che fanno della mafia un mostro per molti versi invincibile: dall’omertà alla paura, dalla violenza al legame con la politica, dai sogni spezzati di giustizia sociale alla giustizia terrena resa impotente per la forza di criminali e “galantuomini” senza scrupoli, che piegano miseria ed ignoranza ai propri scopi, passando per benefattori, ma rappresentando i primi carnefici delle fasce più deboli della popolazione, lasciate sole dallo Stato a combattere una lotta impari. Gli attori sono straordinari con Enrico Maria Salerno, Gastone Moschin e Ciccio Ingrassia in stato di grazia. Il primo rappresenta il pubblico ministero che cerca di far luce dietro i delitti (16) in cui sono implicati i gruppi mafiosi guidati da Amedeo Barrese (Mario Adorf) e l’ingegner Crupi (Georges Wilson), in lotta per interessi legati alla costruzione di una diga, a causa di cui verranno uccisi l’onesto sindaco Giuseppe Salemi (Aldo Griuffré) ed altri soggetti coinvolti a vario titolo nella faida. Il secondo interpreta l’avvocato Colonnesi, abile manipolatore in grado di far scarcerare tutti gli imputati. Gli unici colpevoli resteranno Vacirca (interpretato da Guido Leontini, che costituiva una mina vagante per le due fazioni in lotta) e soprattutto il povero Giacalone, interpretato mirabilmente da Ciccio Ingrassia, che prima si auto-accusa per l’omicidio mai commesso del commissario Florena e poi si uccide in carcere per “garantire un futuro” ai propri figli cresciuti nella miseria.
Ovviamente il film è da vedere e rivedere per comprendere il dramma che sta dietro a certi fatti di mafia, anche perché questa breve sintesi non è volutamente esaustiva (l’opera verrà analizzata in un altro spazio), considerando anche i ruoli non citati quali quelli di: Rosaria Licato (Mariangela Melato), il maestro Salemi (Riccardo Cucciolla), il giudice (Turi Ferro) e il senatore (Ferruccio de Ceresa). Ma tale film riesce a mettere in luce come la mafia possa influire sulla democrazia e la libertà del singolo, da un livello micro, consistente nelle raccomandazioni per il superamento di un esame di scuola o per un posto di lavoro, a quello macro, legato alla realizzazione di lavori per miliardi delle vecchie lire o alla corruzione di onorevoli e alte cariche dello Stato.
Alcuni, pur non avendolo visto o analizzato con sufficiente attenzione, magari storceranno il naso cominciando a citare altri titoli – sulla carta – più attinenti o lungometraggi caratterizzati da maggior cura dei dettagli sotto il profilo tecnico, sfoggiando una discreta cultura da cinefili (o da conoscitori di titoli), ma quello della mafia è un argomento serio e merita ben altra attenzione rispetto ad osservazioni spesso sterili, da critici da apericena. Per quanto si possa amare la Settima Arte (ne so qualcosa), aspetti come la qualità della fotografia (è solo un esempio, non accanitevi), seppur fondamentale, dovrebbero venire in secondo piano rispetto ad altri. La veridicità della storia narrata rispetto al contesto reale e la minuziosa descrizione di determinati processi, quali quelli legati alle conseguenze delle strategie o delle azioni del crimine organizzato sulla società, sono fondamentali, perché è il caso di ricordare che le mafie, non solo dal punto di vista militare, rappresentano fra i più grossi pericoli per una vera democrazia, dal momento che non si tratta di prodotti dell’immaginazione, ma di vergognose realtà, pertanto trattarle dovrebbe essere una responsabilità, non un mero esercizio di vanità.
Avvocato Colonnesi: «Violenza è non rispettare le leggi, ribellarsi all’autorità, uccidere».
Procuratore: «Certo, ci sono due modi per essere violenti: uno è questo che dice lei. Ma violenza è anche uccidere un uomo giorno per giorno negandogli il lavoro, una casa decente, costringerlo a vivere tutta una vita analfabeta, privarlo della scuola perfino per i figli. Violenza è quando anche i più elementari diritti diventano dei favori dai chiedere ai cosiddetti galantuomini. Violenza è costringerlo a votare per un partito che odia, per dei candidati corrotti a servizio dei padroni. Violenza è fargli dire sissignore, nossignore a comando, privarlo della sua dignità di essere umano. Questa è la vera violenza perché è la più subdola, la più feroce».
(Dialogo tra Gastone Moschin ed Enrico Maria Salerno, rispettivamente avvocato Colonnesi e PM, tratto da La violenza: quinto potere, di Florestano Vancini, 1972).
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