Razzisti italiani fra ignoranza, rabbia e memoria corta: il pericolo esiste e va combattuto nella sua complessità
La storia insegna che quello italiano è stato uno fra i popoli più discriminati per le loro condizioni socio-economiche, ma ciò non ferma i razzisti
Gli uomini sono eguali; non la nascita, ma la virtù fa la differenza. Voltaire
Fonte: blog Homo Sum di Francesco Carini – Linkiesta.it – 30/07/2018
«In Italia non c’è posto per voi», «tornatevene al vostro paese». Queste sono fra le bestialità che si leggono maggiormente su alcune pagine dei social network, dove si arriva persino ad inneggiare alla costruzione di lager per immigrati o ad esultare perché un cane viene aizzato contro un venditore ambulante in spiaggia.
Un operaio colpito da un piombino sparato da una carabina mentre lavorava sul tetto di una casa, una neonata Rom che rischia la paralisi per una circostanza simile, aggressioni e violenze subite fra milioni di indifferenti e gente compiaciuta perché nella loro mente ciò potrebbe fungere da atto rieducativo. È inutile dire che la situazione è ampiamente degenerata, ma è ancor più grave per il bel paese, che per secoli (e ancora ai giorni nostri) ha fatto dell’emigrazione il mezzo per un futuro migliore o attraverso cui sfuggire alla miseria, cioè una fra le peggiori cause per la crescita dell’irrazionalità e della violenza.
Ma andiamo per ordine. Perché, in un paese che si reputa civile, parte della popolazione si scaglia contro cittadini di diversa nazionalità (soprattutto di colore), non trattandoli alla stregua di esseri umani, come se non fossero senzienti?
È davvero difficile spiegarlo, soprattutto in uno spazio breve come quello di un articolo, ma si prenderanno ad esempio pochi casi per comprendere che quello italiano non è il popolo eletto, e, se fosse davvero cristiano, non farebbe provare a gente che viene da lontano (sia in fuga da guerre che alla ricerca di opportunità) quello che milioni di nostri connazionali hanno patito sulla loro pelle fuori dalla propria terra.
Ne L’italianità esportata, primo capitolo di Hollywood Italian, l’autrice Paola Casella, prima di analizzare la filmografia a stelle e strisce dove sono stati descritti stereotipi e figure di italo-americani, cita alcuni lavori dove si fa riferimento a certi esempi di come erano ritratti e discriminati i nostri “compaesani” negli Stati Uniti d’America. Fra questi, c’é Wop! (acronimo di Without Documents, trad. Senza Documenti) di Salvatore La Gumina, dove, fra le tante cose, sono riportate anche vignette denigratorie (es. raffiguranti gli italiani come topi di fogna) e viene citato il pensiero del sociologo statunitense Edward Alsworth Ross, su certi italiani che s’imbarcavano dal porto di Napoli:
Fronti basse, bocche spalancate, menti sfuggenti, lineamenti plebei, facce storte, crani piccoli o bitorzoluti e teste senza nuca. Tipi come questi non potranno mai prendersi cura di sé in modo razionale.
Non finisce qui, perché la Casella riporta parte di un articolo pubblicato nel 1891 sul New York Times, ripreso dall’autore di Blood of my Blood del newyorkese Richard Gambino:
Questi siciliani subdoli e vigliacchi, discendenti di banditi e assassini, che hanno portato con sé in questo paese le passioni senza legge, le abitudini criminali e le società segrete legate da giuramenti del loro paese natale, costituiscono per noi un flagello senza limiti.
Di conseguenza, se appare ridicolo e vergognoso fomentare il razzismo in ogni parte del mondo e d’Italia, questo dovrebbe risultare ancora più deleterio in particolare per gli abitanti del Sud del nostro paese, con i suoi figli destinati ad emigrare ancora oggi, oltre ad essere stato un crogiolo di culture diverse da circa 3.000 anni a questa parte. Per la serie: abbiamo la memoria corta, ma poco importa perché l’asino gratta un altro asino e l’unione fra somari fa la forza, mettendo sempre in minoranza chi cerca di parlare con cognizione di causa e pacatezza.
Asinus asinum fricat (tradotto meravigliosamente in siciliano con: u sceccu si strica cu sceccu).
Pertanto, quella che sembra un’opposizione a chi ci appare estraneo, non si limita semplicemente ad una strategia dell’esclusione, mirabilmente descritta da Norbert Elias nel suo omonimo capolavoro, ma alla sua aggressione, non comprendendo che i veri problemi di tutto sono la povertà e la disuguaglianza. Invece di organizzarsi democraticamente per far rispettare o sensibilizzare alla creazione di nuovi diritti, milioni di italiani si sono incattiviti o hanno risvegliato un (mai del tutto) sopito razzismo verso chi viene da fuori, senza concepire che coloro i quali arrivano qui non lo fanno per divertimento.
Nel saggio The Big Deal: i nuovi usi della diagnosi nella democrazia tedesca di Luciana Degano Kieser e Giovanna Gallio (pubblicato nel volume 357 di Aut aut – Le diagnosi in psichiatria), viene riportato un dato impressionante diffuso dallo Statisches Bundesamt riferito all’accesso nelle Sonderschulen (scuole “speciali” per diversamente abili), in cui la percentuale di immigrati italiani iscritti è pari all’8,5% del totale sul territorio nazionale (con picchi del 9,8% in Ländern come la Baviera) contro il 4,4% dei tedeschi. Naturalmente, questo dato dovrebbe far capire non che gli italiani siano meno dotati dei teutonici, ma che una condizione di svantaggio economico e sociale in determinate fasce della popolazione immigrata può condurre a situazioni in cui tale disparità di partenza può essere manifestata anche nelle prestazioni intellettuali degli scolari (a meno che non ci siano handicap psico-fisici manifesti o diagnosticati per mezzo di analisi cliniche o strumentali).
Il mondo si divide in: quelli che mangiano il cioccolato senza il pane; quelli che non riescono a mangiare il cioccolato se non mangiano anche il pane; quelli che non hanno il cioccolato; quelli che non hanno il pane.
(cit. Stefano Benni)
Perciò, si deve necessariamente agire da due fronti: il primo, volto limitare le disuguaglianze e l’accesso alle risorse per una vita dignitosa dei cittadini più svantaggiati (italiani e non), perché questo nella storia ha determinato solo schiavitù (legalizzata o meno) e catastrofi; il secondo è una battaglia culturale da portare avanti nelle scuole e in casa, con gli/le insegnanti (soprattutto maestri/e di primo grado) e le famiglie che devono educare alla convivenza e alla fratellanza, prendendo seri provvedimenti in tutti i settori, soprattutto nel pubblico (istruzione e sanità in primis) contro casi di discriminazione, come quanto successo in Abbruzzo al cittadino italiano di origine senegalese Ibrahim Diop.
Da quanto riportato su Repubblica.it, il trentanovenne residente a Roseto (TE), come risposta ad una sua richiesta, è stato gravemente umiliato da un impiegato dell’ASL locale con: «Che vuoi? Vattene. Questo non è l’ufficio del veterinario…». Non è il primo e verosimilmente non sarà l’ultimo scandaloso caso di razzismo, in cui un uomo viene paragonato a un animale, ma cominciare ad abituarsi a situazioni del genere può condurre ad una pericolosa spirale in cui atti di inciviltà diventeranno la norma.
Nel 1974, Nino Manfredi ha interpretato Giovanni Garofoli nel film Pane e cioccolata di Franco Brusati. Questo lungometraggio è una perla e spiega cosa significa emigrare per una miriade di connazionali alla ricerca di un sogno che consisteva nella possibilità di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, ma che purtroppo per molti si trasformava in delirio e in un senso di estraniamento per il duro scontro con la realtà.
Nella celebre scena del pub svizzero frequentato da cittadini di lingua tedesca, in un suo pietoso tentativo di assimilarsi ai locali attraverso i capelli tinti di biondo e una birra bevuta davanti alla televisione (che trasmetteva la partita di calcio Svizzera – Italia), il buon Garofoli griderà insieme agli altri clienti: «Hund» (trad. cane) nei confronti dei giocatori azzurri, mimando maldestramente il verso dell’animale, salvo alla fine esplodere e gridare: «Gooooool. Sò italiano, embé!».

Ma questo suo attaccamento genuino veniva meno in altri contesti nei quali l’ignoranza e il degrado che lo attorniavano la facevano da padrone, dove il suo senso di appartenenza veniva minato dallo scontro con altri connazionali che non vedevano o facevano finta di non vedere il modo in cui erano trattati o costretti a sopravvivere.
Pertanto, è normale accanirsi su della povera gente dopo quello che hanno passato i nostri avi e che rischieranno di subire i nostri figli?
Proprio la mancanza di memoria storica del popolo italiano, con milioni di connazionali che hanno avuto parenti e amici all’estero, molti dei quali costretti a vivere condizioni discriminatorie (e che, nelle migliori delle ipotesi per vergogna, le nascondono in patria per qualche settimana all’anno con una finta parvenza di ricchezza e apparente successo economico durante le vacanze estive), prendendo in prestito proprio le parole di Giovanni Garofoli (Nino Manfredi), fanno pensare:
Scusate, scusate, solo una domanda. Chi sono io? Scusate, ognuno è quello che è, non è mica colpa sua […] Ma io, chi sono? Mi spiego, voi siete italiani ed io sono italiano, ma io sono come voi?