Nella società dell’invidia e del cannibalismo fratricida, la diffamazione e la calunnia diventano armi sempre più subdole e pericolose
L’invidia sociale rappresenta oggi una fra le caratteristiche più distruttive per la società, ma è un fenomeno che parte da lontano

Nella società dell’invidia e del cannibalismo fratricida, la diffamazione e la calunnia diventano armi sempre più subdole e pericolose
L’invidia sociale rappresenta oggi una fra le caratteristiche più distruttive per la società, ma è un fenomeno che parte da lontano


di Francesco Carini

«Può capitare che una forte invidia per la bontà o le opere buone di una persona possa spingere ad accusarla falsamente. Qui c’è un vero e proprio veleno mortale: la malizia in cui in modo premeditato si vuole distruggere la buona fama dell’altro. […] Siate attenti voi, siate attenti, perché questo atteggiamento distrugge le famiglie, le amicizie, le comunità e persino la società»
Papa Francesco, Angelus del 10/06/2018

Fonte: blog Homo Sum di Francesco Carini – Linkiesta.it – 19/06/2018

A parte il pensiero del pontefice esposto molto chiaramente nell’Angelus del 10 giugno, circa sei mesi fa, veniva pubblicata su L’Espresso una bella intervista di Stefano Vastano al filosofo Gunnar Hindrichs intitolata Viviamo nell’età dell’invidia. In questa pubblicazione, l’intellettuale tedesco ha parlato della crescita degli estremismi nella nostra società, che disconosce la trascendenza e fonda tutto sull’immanenza. Ma c’è un punto molto interessante che caratterizza l’articolo fin dal titolo.

Hindrichs nota come l’invidia si basilare per la crescita di determinati movimenti, che, facendo leva sulla rabbia di chi compara la propria vita con quella altrui producono un sentimento distruttivo per se stesso e soprattutto per gli altri. In parole povere, mancano una carica utopica collettiva in grado di costruire una realtà migliore e quella gioia per la felicità della vita del prossimo: permane solo una tristezza di base che punta a demolire quello che non si può raggiungere.
Prendendo come metafora il calcio, è il classico caso del difensore scadente che, fattosi superare dall’attaccante forte, non trova altro mezzo che spezzargli le caviglie alfine di non farlo scappare.

L’invidia è l’ulcera dell’anima. Socrate

Negli anni ’60 e ’70, si manifestava per chiedere l’accesso di tutti alla formazione universitaria e l’estensione del diritto allo studio (unica arma democratica per abbattere la disuguaglianza), oggi, al tempo dell’università della vita, molti figli di operai o comunque degli strati sociali meno abbienti ringraziano il cielo per non aver iniziato o comunque terminato percorsi di alta formazione, con uscite del tipi: «ne so più io che l’ingegnere che ha studiato» o «Steve Jobs non era laureato». A parte che di geni ce ne sono pochi e di analfabeti funzionali l’Italia è piena, sembra un romanzo di Orwell, invece è lo spaccato di una parte della società che vede nell’istruzione quasi un nemico, non rendendosi conto (per invidia e/o per reale mancanza di cognizione o condizioni economiche) che nella cultura e nella formazione, non solo nella furbizia, nel denaro e nell’arte dell’arrangiarsi, sta l’arma più importante per non far ledere i propri diritti e la propria dignità di essere umano e di cittadino (a prescindere dal reddito percepito).

Pertanto, la guerra alla formazione di una parte delle classi svantaggiate rappresenta uno fra gli aspetti più grotteschi, autolesionisti e inquietanti di questi ultimi decenni: proprio quel puntare tutto sull’immanenza e non sulla programmazione, condizione che condurrà sempre più le professioni prestigiose nelle mani dei ceti più abbienti, che non avranno problemi a investire sull’istruzione dei propri figli (non su semplici pezzi di carta), al contrario di quelli svantaggiati, con questi ultimi (costretti nella migliore delle ipotesi ad intraprendere la carriera militare per necessità, più che per passione) che si troveranno in un’inverosimile condizione di sfavore, sia per le scarse risorse legate al diritto allo studio, che per lo scarso appoggio dall’ambiente di appartenenza, e che magari dovranno dipendere da qualche aiuto concesso da enti non statali, bensì privati.

Citando Pierre Bourdieu, è come se ci fosse un habitus in parte delle classi più svantaggiate che, educate quasi esclusivamente all’obbedienza, non afferrano l’importanza dell’agire comune per ottenere o tutelare i propri diritti civili e sociali, percependo non di rado come un pericolo chi cerca di sensibilizzarle attraverso la cultura e i valori democratici di libertà ed uguaglianza al raggiungimento di traguardi fondamentali per il futuro loro e dei propri figli. Ne Le basi morali di una società arretrata di Edward Banfield, in cui è stato analizzato il concetto di familismo amorale, il contadino Prato conferma la superiorità dei ricchi come un fatto di natura piuttosto che considerare come le condizioni di partenza possano avvantaggiare i ceti più abbienti: «[…] i ricchi sono migliori. Sono più ricchi e così naturalmente sono migliori, e noi dobbiamo stare sotto di loro». Nello stesso volume si percepisce come sia data per assodata la superiorità di un ceto su un altro “inferiore” e di come invece venga visto fra i contadini con sospetto il proprio simile o chi cerchi di fare politica non appartenendo alla stessa classe o a “chi è adibito per farla”, come se la felicità o l’eventuale successo di quest’ultimo potesse togliere a priori qualcosa al proprio nucleo familiare (da qui il concetto di familismo amorale, definito come la massimizzazione dei benefici materiali del proprio nucleo di base, supponendo che gli altri si comportino allo stesso modo).

Questo principio va sicuramente esteso non solo all’ambito familiare, bensì sociale, in modo da uscire dagli assiomi imposti e comprendere che i “privilegi” acquisiti nel tempo da un determinato gruppo e che conducono indubbiamente a maggiori probabilità di successo economico e sociale sono frutto di evoluzioni storiche (lasciando ai bontemponi favole come Cenerentola e La piccola fiammiferaia).
Nel meraviglioso Strategie dell’esclusione, Norbert Elias, studiando la realtà inglese di Winston Parva, analizza perfettamente l’opposizione dei radicati in un determinato ambiente a quello degli esterni (che si dovrebbero inserire) e della stigmatizzazione che i primi fanno dei secondi anche attraverso la diffamazione, pur appartenendo entrambi alla classe operaia, con una prassi che è tipica di chi vuole impedire l’ascesa di un singolo o un determinato gruppo non facente parte per nascita ad un dato contesto (in questo caso una forma di “aristocrazia operaia”).
Tralasciando per un momento la realtà macro e spostandoci verso una realtà micro, è molto difficile ascoltare discorsi sul raggiungimento di traguardi sociali per tutti, mentre è molto facile notare come si persegue sempre più alla tutela dell’interesse del singolo (o al massimo della famiglia nucleare), con il disinteressamento verso quello della collettività, sviluppando rapporti e obiettivi quasi mai erga omnes.

Sul web si assiste a una rappresentazione assai ingigantita delle discussioni da bar o del chiacchiericcio casalingo in cui si fantastica sulle vite altrui o si rode dalla rabbia nell’analisi della propria esistenza, reagendo di conseguenza con il cercare di demolire quella degli altri (senza magari saperne nulla a riguardo o inventando/ingigantendo fatti su cui non di rado vige per legge la privacy). Facendo un giro sui social, che comunque non fanno altro che rispecchiare la realtà di base in modo più amplificato (pertanto la colpa non è dei social stessi, ma di una parte degli iscritti), sembra di assistere ad un eterno talk show di quarta categoria, in cui ci si scaglia contro qualcuno e nelle quali versioni strampalate riguardanti un fatto o una persona si uniscono ad accuse scagliate con violenza, basate spesso e volentieri sulla lettura di notizie false considerate invece come reali.

Il tam-tam mediatico produce conseguenze immense, come quelle prodotte nei secoli attraverso la calunnia, ben prima dell’avvento dei social network. Mettere in moto una macchina del fango alfine di disintegrare l’immagine di un avversario politico, di qualcuno che è superiore in un determinato campo o verso cui si prova invidia, è uno dei mezzi e delle prassi più antiche, oltre che subdole e distruttive, perché i danni prodotti non si fermano soltanto alla sfera materiale, con conseguenze che rovinano l’esistenza dei singoli e ricadono sulla società come costi (come già discusso anche in articoli precedenti riguardanti fenomeni come: mobbing, straining e diffamazione).
Non è difficile comprendere quanto possa essere deleterio per una persona essere rallentato, bloccato o ostacolato per falsità fatte circolare senza pietà. E in una realtà come quella italiana, in cui l’ascensore sociale è già fondamentalmente bloccato, a meno di non avere una famiglia alle spalle ben inserita in qualche ambiente o di “appartenere” a qualcuno, lo sforzo per raggiungere certi risultati è già molto più grande rispetto a paesi in cui i diritti sociali sono tutelati in misura maggiore.

Pertanto, oltre ad ambienti chiusi, in cui l’entrata in condizioni di base appare già come una chimera, il dramma della società attuale nasce da quello che si può definire come cannibalismo fra eguali (a prescindere dal reddito percepito), attraverso determinati meccanismi (da denunciare alle autorità competenti) che ledono l’immagine di qualcuno provocando danni spesso irreparabili per l’assenza di condizioni sociali ed economiche in grado di ribaltare le accuse, con prassi molto simili sia a livello micro che macro.
Nel film L’arte di arrangiarsi, diretto da Luigi Zampa nel 1954, sceneggiato da Vitaliano Brancati, Rosario Scimoni detto Sasà (Alberto Sordi), ex segretario particolare e cinico nipote del sindaco di Catania (interpretato dal grande Franco Coop), passato con l’onorevole Toscano, confiderà alla moglie di quest’ultimo il mezzo attraverso cui sconfiggere lo zio alle elezioni successive:

«Dobbiamo coprirlo di ridicolo, in questa terra solo il ridicolo uccide»

Tornando ad una realtà più amplia, risulta fondamentale citare parte dell’omelia della messa recitata da papa Francesco ieri mattina a Casa Santa Marta. «Se si vogliono distruggere istituzioni o persone si comincia a sparlare. […] In questo modo procede tanta gente, tanti capi di stato o di governo». Partendo sempre da casi particolari come quei martiri distrutti a causa della calunnia, Bergoglio ha proseguito citando la pericolosità di un certo modo di agire che, insinuandosi con accuse fondate sulla menzogna e sulle bugie sul conto di qualcuno, possono crescere e creare le condizioni per l’instaurarsi a livello macro di sistemi non democratici: «tutte le dittature hanno iniziato così, con l’adulterare la comunicazione, per mettere la comunicazione nelle mani di una persona e di un governo senza scrupolo».

Come si può notare, il buon senso e l’analisi razionale sulla società che ci circonda non ha colore politico o ideologico, ma è semplicemente caratterizzato dall’onestà intellettuale. Verosimilmente, la rabbia provocata per un’esistenza senza sogni e fatta di stenti (in un periodo in cui la povertà sta crescendo in modo preoccupante) può causare l’aumento di sentimenti distruttivi in coloro i quali possono solo scaricare le proprie frustrazioni soprattutto verso chi è più debole o ha poche possibilità di difendersi in modo adeguato. Certamente ciò non è né umano in senso lato, né cristiano. E in una terra come l’Italia, dove tanto ci si appella alla propria fede religiosa e si fanno (seppur legittimamente) battaglie per non togliere i crocifissi dalle classi, questo appare soltanto come l’ennesimo aspetto grottesco in cui un credo o radici culturali vengono utilizzate per nascondere le proprie mancanze e le proprie paure, senza ragionare sui reali impedimenti alla formazione di un sistema realmente democratico, meno diseguale e più equo di quello in cui ci si trova adesso, in cui invece si assiste a una dolorosa, continua e insostenibile “battaglia fra simili”, a prescindere dalla provenienza e dal colore della loro pelle.

Quando io dò cibo ai poveri, mi chiamano santo. Quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, mi chiamano comunista.
Monsignor Hélder Câmara

 

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