Il razzismo è insensato. Studiamo e riflettiamo con Il cammino della speranza e Itaker – Vietato agli italiani
Quando penso all’idea di Europa, mi viene in mente la bellezza del mito (molto diffuso in epoca altomedievale) del mondo diviso in tre parti: Africa, Asia ed Europa appunto, come territori assegnati rispettivamente da Noè ai suoi tre figli: Sem, Cam e Iaphet. Naturalmente, questa teoria è molto semplificata e non c’è un fondamento scientifico, ma credo sia ugualmente affascinante proprio per indicare l’origine dei popoli che vivevano in differenti parti del mondo conosciuto, come discendenti da un unico padre e dalla madre Coba.
Pertanto, pensando all’odio che ha condotto nel corso della storia a deportazioni e a guerre fra popoli, parafrasando Eliade, senza mito ciò che resta è davvero un’umanità degradata.
Dall’altro lato, sotto il profilo scientifico, l’idea di razza è stata abbondantemente superata anche grazie alla genetica e si può affermare che fra gli uomini esiste solo la razza umana. Escludendo tratti somatici e caratteristiche peculiari di ogni individuo che appartengono al suo corredo genetico, il contesto in cui il singolo cresce risulta fondamentale nello sviluppare determinati comportamenti o abilità.
Non è una situazione ascrivibile solo al nostro paese, ma è triste vedere come parte degli italiani abbia dimenticato quello che hanno dovuto passare nei decenni scorsi i nostri avi, e che non veda la mancata percezione del rischio per gli anni a venire in caso di trasferimento all’estero.
Per rinfrescare la memoria, mi vengono in mente due film: Il cammino della speranza (1950) e Itaker – Vietato agli italiani (2012).
Il primo, diretto da Pietro Germi, e ispirato dal romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria, rappresenta un quadro in cui istanze sociali e sentimento si uniscono in un binomio perfetto. Nonostante il secondo aspetto prevalga sul primo, come ha indicato Sebastiano Gesù in Pietro Germi il Siciliano, il tema è stato pensato grazie a un fatto realmente accaduto che ha visto un gruppo di migranti calabresi salvato al confine francese dal congelamento, mentre cercava di arrivare Oltralpe.
Sintetizzando, la storia si basa sulla ricerca di lavoro e di una vita migliore all’estero da parte di decine di minatori siciliani alla chiusura della loro solfatara. Convinti da Ciccio Ingaggiatore, un uomo senza scrupoli (interpretato da un bravissimo Sarò Urzì), ciascuno verserà 20.000 lire per intraprendere il viaggio illegale che li porti in Francia.
Protagonista assoluto è Saro Cammarata (Raf Vallone), leader della compagnia, il quale, rimasto vedovo con tre figli, ha la necessità di arrivare a destinazione ad ogni costo. Anche se vicende sentimentali occuperanno un ruolo importante nell’opera del regista genovese, è interessante focalizzarsi sul suo aspetto sociale. Partiti da un paese dell’entroterra dell’isola, i poveri siciliani appaiono molto simili ai migranti di oggi, senza denaro e non voluti da nessuno. Dopo essere rimasti in questura a Roma per qualche ora a causa dell’assenza di documentazione valida per continuare il viaggio, parte del gruppo prosegue verso Nord, dovendosi fermare verosimilmente in Pianura Padana, dove vengono ingaggiati come lavoratori giornalieri da un fattore che approfitta del fatto che i migranti siano senza documenti. E da qui partirà un nuovo inferno, perché la popolazione locale si scaglierà contro i poveri siciliani, rei di non essere iscritti ad alcun sindacato e di determinare un abbassamento del costo del lavoro.
Fra razzismo e timore dei nuovi arrivati, il gruppo si dividerà, fra chi è stanco e decide di tornare al paese natio e chi invece, spinto dalla disperazione, vuole andare avanti.
Quello che colpisce è l’attualità di questo film, se relazionato con la situazione contemporanea, in cui i migranti meridionali di Germi appaiono come gli immigrati di oggi che, in molti casi, scappano da condizioni di povertà e degrado, sperando in una nuova vita. La figura di Ciccio Ingaggiatore, organizzatore del viaggio illegale, fa pensare ai traghettatori senza scrupoli che giocano sulle illusioni della gente disposta a tutto per un futuro migliore; mentre il fattore padano rimanda tanto ai caporali di casa nostra, meno dispotico rispetto a coloro i quali sfruttano gente disperata per raccogliere frutta e verdura, ma sicuramente non meno cinico.
La speranza nel film è rappresentata alla fine, dall’umanità delle forze dell’ordine, che, come ha indicato Sebastiano Gesù nel sopracitato volume, optarono per: «una legge superiore, quella umana, la legge della solidarietà, della carità» ponendo davanti a tutto il dramma della disperazione, rispetto alle «leggi scritte nei codici», permettendo a pochi disperati di iniziare una nuova esistenza.
Il secondo film che dovremmo tutti guardare è il bellissimo Itaker – Vietato agli italiani, del talentuoso Toni Trupia, in onda su Rai 5 questa sera alle 22 e che non intendo spoilerare (in toto) per chi non l’abbia visto, ma a cui è importante fare riferimento per comprendere determinate dinamiche storiche e sociali. Caratterizzato dall’interpretazione di un superbo Francesco Scianna (impegnato nel ruolo di operaio e magliaro campano) e basato sul soggetto dello stesso regista agrigentino e di Leonardo Marini (su una suggestione di Michele Placido), il film è frutto di due anni di ricerche e di lavori sul campo. Anche se la storia in sé è inventata, Trupia, che ha risposto gentilmente ad alcune domande, dichiara:
«ho raccolto molte storie di prima mano, sono stato in Germania. E poi nella sceneggiatura abbiamo cercato di creare dei personaggi che in qualche modo restituissero la verità delle storie che avevamo ascoltato».
Lo stesso titolo, Itaker, rimanda all’aggettivo spregiativo usato da cittadini tedeschi nei confronti degli italiani, ma c’è di più, dal momento che: «la sua pronuncia suona come Itaca. Il film racconta l’approdo in un luogo in cui ricostruire la propria identità ed è in qualche modo la piccola odissea di un bambino che cerca un padre».
Difatti, quello che i protagonisti passano, compreso Pietro, il bambino interpretato da Tiziano Talarico, è un’autentica odissea e un continuo barcamenarsi fra privazioni, sacrifici e “sole” rifilate pur di andare avanti alfine di costruirsi una vita dignitosa, perché, come confiderà Benito Stigliano (Francesco Scianna) a Doina (Monica Birledeanu): «al paese mio tu pò fare solo una vita da pezzente, io so’ proprio scappato».
Proprio questo è il punto per cui Itaker è importante, perché, oltre alle vicende personali di un bambino, si intersecano i sogni di un adulto, solo come il suo giovane amico, che sfugge non dalla guerra, bensì dalla miseria, alla ricerca di un’ascesa sociale inimmaginabile nel luogo di origine.
Ma anche qui, oltre alla durezza delle condizioni in cui devono sopravvivere (una baracca con altri italiani e un lettino da dividere), Pietro e Benito dovranno scontrarsi con il razzismo e l’ostilità di un ambiente estraneo e con i commerci illegali del connazionale Pantanò (Michele Placido), la cui attività comunque rappresenta la sola via tramite cui non dover condurre un’esistenza da schiavi in fabbrica, a cui la maggior parte dei migranti sarebbe costretta, non per mancanza di capacità intellettuali, bensì per condizioni di partenza.
Pertanto, quello che abbiamo passato e, in molti casi, sopportiamo ancora oggi noi italiani, lo sta passando chi viene da un altro paese.
Riferendoci proprio a dei numeri riferiti all’emigrazione in Germania (come ho riportato in un articolo scritto ad ottobre), nel saggio The big Deal: i nuovi usi della diagnosi nella democrazia tedesca di Luciana Degano Kieser e Giovanna Gallio (pubblicato nel volume 357 di Aut aut – Le diagnosi in psichiatria), viene indicato il dato inquietante trasmesso dallo Statisches Bundesamt (Ufficio federale di statistica), legato all’accesso nel 2010 alle Sondernschulen (“scuole speciali” per diversamente abili), nelle quali la percentuale di immigrati italiani iscritta è dell’8,5% (in Baviera del 9,8%) contro il 4,4% dei tedeschi, numeri che dovrebbero far ben pensare non alla superiorità dei secondi nei confronti dei primi, bensì al gap socio-economico (che si riflette in quello culturale) esistente fra i due gruppi, in grado verosimilmente di condizionare l’apprendimento (a parte i casi di deficit conclamati) proprio a causa di fattori in primis ambientali.
Quindi, ragionando in termini razzisti, dovrebbe risultare un quadro di superiorità dei teutonici rispetto agli italiani, e francamente, considerando la nostra storia e le abilità che contraddistinguono il nostro popolo, credo proprio sia una visione totalmente irrealistica…
Di conseguenza, prima di giudicare chiunque arrivi da situazioni che non conosciamo, ed abbia un colore della pelle o tratti somatici differenti dai nostri, ricordiamo che è già stato dimostrato che esiste una sola razza: quella umana.
Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile, sempre. Platone
Il ragionamento sopraindicato prescinde dalla necessità di misure che regolino a livello europeo (coinvolgendo tutti i paesi) i processi di immigrazione, con razionalità e, al contempo, umanità.