SOS Ingiurie, diffamazioni ed hate speech: fenomeno grave, ma può essere contrastato. Parola alla giurista
Via web appare come una situazione fuori controllo, ma ingiurie, diffamazioni e violazioni della privacy (es. revenge porn) costituiscono fenomeni che possono e devono essere contrastati denunciando e ricorrendo alla legge. L’avv. Sonia Randazzo ne parla in modo approfondito su Homo Sum

La calunnia è un venticello,
un’auretta assai gentile
che insensibile, sottile,
leggermente, dolcemente
Incomincia a sussurrar.
Piano piano, terra terra,
sottovoce, sibilando,
va scorrendo, va ronzando;
nelle orecchie delle gente
s’introduce destramente
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
[…]
Da Il barbiere di Siviglia, di Gioacchino Rossini
Anche se non si tratta di calunnia nel senso giuridico con cui lo si intende in Italia oggi, l’aria tratta dal primo atto dell’opera Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini è straordinariamente attuale, soprattutto considerando il meccanismo in grado di scatenare attraverso il web e i social (ma non solo) “fango virtuale” con cui si può ridicolizzare, distruggere la reputazione e, spesso, la vita di individui o gruppi, in particolare fra le fasce più deboli della popolazione, che non hanno né la forza economica, né quella mediatica o le conoscenze in grado di contrastare un fenomeno sempre più pericoloso e vario nelle sue sfaccettature, che arriva a scatenarsi senza vergogna anche su persone recentemente scomparse quali il direttore d’orchestra Ezio Bosso, affetto da una grave malattia neurodegenerativa.
In ambito micro, per restare nella sfera operistica, come già citato in un altro articolo, interessante, anche se molto triste, è l’esempio fornito dalla vicenda che vide coinvolta Doria Manfredi, raccontata splendidamente da Paolo Benvenuti nel film Puccini e la Fanciulla.
La ragazza, che lavorava a servizio di casa Puccini, poco più che ventenne, dopo aver scoperto per sbaglio una tresca fra il librettista del compositore e la figliastra Fosca, attraverso un meccanismo diffamatorio creato da quest’ultima e da sua madre Elvira (gelosa del marito), fu ricoperta di fango in modo preventivo e additata in paese (Torre del Lago) di essere l’amante dell’artista.
Dopo aver trascorso un periodo terribile, la giovane si uccise a 23 anni e, solo dopo la morte, ne fu constatata la totale estraneità ai fatti. Lo sdegno della comunità ci fu, ma arrivò troppo tardi.
Tornando per un istante all’opera di Rossini, si può dire che la storia di Doria, in parte, si sia conclusa con quanto profetizzato nell’ultima strofa della suddetta aria:
«E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello, per gran sorte va a crepar».
Per quanto drammatico, questo è un esempio particolare, ma, allargando il discorso, potrebbe far riflettere come in soggetti fragili o comunque indifesi, indipendentemente dal sesso, davanti alla forza di piccoli potentati o dell’opinione della massa, ingiurie e diffamazioni costituiscono una potenza di fuoco spregevole e difficile da contrastare e, non di rado, presente in fenomeni come mobbing e straining.
Tale tecnica, perché di questo si può parlare data la raffinatezza e la perizia con cui la viltà umana può agire, è stata utilizzata anche contro le vittime di mafia, gente che ha combattuto e denunciato davvero il crimine organizzato. Per fare alcuni nomi, si possono citare: Pasquale Almerico (ucciso nel ’57 con 104 colpi di mitra, ma additato prima come soggetto con problemi psichici dopo essersi rifiutato per coscienza di scendere a patti con il mafioso Vanni Sacco), Peppino Impastato, Pippo Fava e Giancarlo Siani (sulle cui morti, in modo diverso, furono date e diffuse versioni che a vario titolo non rispondevano al vero, per la causa o per i moventi), non dimenticando il sindacalista Salvatore Carnevale, che, stando al racconto di Carlo Levi in Le parole sono pietre, era considerato da un giovane nobile siciliano un esaltato e un violento, dal momento che così ne aveva sentito parlare.
Dobbiamo coprirlo di ridicolo, in questa terra solo il ridicolo uccide.
Alberto Sordi in L’arte di arrangiarsi, di Luigi Zampa (1954)
Ma, a livello macro, la storia dell’umanità è piena episodi in cui il potere è stato capovolto o il tentativo di arrivarci è stato ostacolato o arrestato da fenomeni diffamatori e calunnie fatte circolare ad arte che hanno innescato processi utili a sedimentare privilegi già radicati e non permettere l’entrata in un determinato contesto, di qualsiasi tipo, o l’ascesa socio-economica di singoli e gruppi, fenomeno che non riguarda solo la sfera politica, bensì sociale (basti ricordare il meccanismo ben spiegato da Norbert Elias in Strategie dell’esclusione).
Fra i tanti esempi, viene in mente il meccanismo dell’avvelenamento dei pozzi che ha visto contrapposti nel nostro paese dalla prima industrializzazione settentrionali da un lato e meridionali dall’altro (e non dimentichiamo per un lungo periodo anche i veneti), con questi ultimi visti spesso come elementi molesti che non facevano altro che gravare sulle spalle delle istituzioni o dei lavoratori del Nord, rischiando di infittire le fila della criminalità.
Insulti ancor più gravi, arrivavano da stati esteri quali gli Stati Uniti d’America. Come riportato da Paola Casella in Hollywood Italian (e citato in questo articolo del 2018 di Homo Sum), il sociologo statunitense Edward Alsworth Ross così vedeva molti italiani che si imbarcavano dal porto di Napoli più di un secolo fa:
Fronti basse, bocche spalancate, menti sfuggenti, lineamenti plebei, facce storte, crani piccoli o bitorzoluti e teste senza nuca. Tipi come questi non potranno mai prendersi cura di sé in modo razionale.
Pertanto, parliamo di meccanismi in cui razzismo, ingiurie e diffamazioni si uniscono, riferendosi a individui o a popolazioni (che partono quasi sempre da situazioni di svantaggio), comprendendo potenzialmente milioni di persone e alimentando il fenomeno dell’invidia sociale o di un’inquietante guerra fra poveri.
Rispetto a qualche tempo fa, c’è più sensibilizzazione sul tema (es. vedesi le iniziative portate avanti dall’avv. Cathy La Torre), ma la strada é lunga e più che impervia. In occasione della Giornata mondiale delle telecomunicazioni e della società dell’informazione, che coincide con quella contro l’omofobia, l’avvocato Sonia Randazzo, esperta in diritti umani e membro di CLEDU (Clinica Legale per i Diritti Umani) operante a Palermo, fa una disamina ad ampio raggio, sotto il profilo giuridico, sui pericoli, in particolare legati al web, connessi ai fenomeni sopracitati.
Salve avvocato, cosa accomuna ingiuria, calunnia e diffamazione?
Medesimi sono gli oggetti di tutela delle tre fattispecie delittuose in questione:
– l’onore, id est il sentimento che l’individuo ha della propria dignità morale;
– il decoro, ossia quel complesso di qualità che determinano il valore sociale del soggetto;
– la reputazione, bene giuridico tutelato dallo Stato che si estrinseca nel diritto alla integrità morale individuato nella stima di cui l’individuo gode nell’ambiente sociale, con specifico riferimento ai principi di dignità, onestà e decoro professionale (Cass. Pen. Sez. V, n. 5945/1982).
In altre parole, la lesione dell’onore e del decoro consiste in una modificazione in peius della percezione che un soggetto ha di sé; il danno alla reputazione, invece, lede il giudizio o la stima di cui l’individuo gode nell’ambiente sociale, con specifico riferimento ai principi di dignità ed onestà.
Sebbene, come visto, l’oggetto di tutela sia pressoché il medesimo, le tre fattispecie hanno modalità di condotta, effetti e sanzioni differenti.
Quali sono le differenze fra ingiuria, calunnia e diffamazione, sia a livello tecnico che di pene?
Il reato di ingiuria è stato depenalizzato dal decreto legislativo n. 7 del 2016; mentre calunnia e diffamazione sono delitti e, pertanto, rilevano sul piano penale.
L’ingiuria (ora illecito civile sottoposto a sanzione pecuniaria da 200 euro a 12.000 euro), a seguito dell’abrogazione dell’articolo 594 del Codice penale ad opera del Decreto Legislativo n. 7/2016, è l’offesa recata all’onore e al decoro di una persona presente nel momento in cui viene posta in essere l’azione criminosa. Se la vittima si trova altrove non si può parlare di ingiuria.
Il reato di calunnia, disciplinato dall’art. 368 c.p., sanziona la condotta di chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità che abbia l’obbligo di riferire all’Autorità giudiziaria, incolpa di un reato una persona che egli sa essere innocente (c.d. calunnia formale), ovvero simula a carico dello stesso le tracce di un reato (c.d. calunnia reale).
La pena prevista per il reato base di calunnia è la reclusione da due a sei anni, con la previsione di circostanze aggravanti speciali ai commi 2 e 3 dell’art. 368. Requisito necessario per il perfezionamento del reato è la consapevolezza del soggetto agente sia della falsità delle accuse rivolte che dell’innocenza del soggetto passivo del reato (basta la denuncia o la querela).
Infine, il reato di diffamazione, così come disciplinato dall’art. 595 c.p., punisce una condotta offensiva dell’altrui reputazione posta in essere in maniera tale che la stessa venga percepita da più persone, seppure in assenza del diffamato.
La pena prevista è della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata a mezzo stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
È proprio il requisito dell’assenza dell’offeso a determinare la maggiore gravità della diffamazione rispetto all’ingiuria, per la maggiore quantità ed estensione del danno e per la viltà e la particolare pericolosità del colpevole. L’offeso, in quanto assente, si trova in una posizione di svantaggio perché senza alcun diritto di reazione e difesa alle offese altrui.
Come si correla tecnicamente un reato quale la diffamazione con la diffusione dei social network?
Anche il diritto ha, ormai da qualche tempo, mosso i suoi passi all’interno di questo enorme contesto, tentando di disciplinare nuove fattispecie, ampliando e aggiornando i propri orizzonti.
Invero, dottrina e giurisprudenza, interrogandosi circa l’idoneità di uno spazio virtuale ad accogliere contenuti potenzialmente lesivi per l’altrui reputazione, hanno più volte rilevato l’applicabilità della disciplina della diffamazione anche a fatti commessi tramite Internet.
Oggi possiamo affermare con dubbio alcuno che l’utilizzo dei social network integra l’aggravante di cui al comma 3 dell’art.595 c.p.
La stessa Corte di Cassazione penale, attraverso la sentenza n. 24431/2015 emessa della sez. I, ha statuito che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”.
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che “la pubblicazione di frasi o immagini diffamatorie sulla piattaforma social “Facebook” costituisce un ambito quantitativamente apprezzabile ed ampiamente sufficiente ad integrare l’elemento oggettivo del reato di diffamazione, il che vale a configurare l’ipotesi aggravata di cui al comma terzo dell’art. 595 c.p. poiché trattasi di condotta potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.” (cfr. Tribunale Pescara 05 marzo 2018 n. 652).
Un conto è la libertà di espressione, un altro è un danno irreparabile o grave alla reputazione di singoli o gruppi. Da cosa è stabilito il limite fra le due sfere di interesse?
Il concetto di limite è insito nel diritto stesso in considerazione del principio secondo il quale, nell’ambito di un ordinamento, le varie sfere giuridiche devono necessariamente limitarsi reciprocamente affinché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile.
In giurisprudenza, così come in dottrina, si è da sempre dibattuto sul rapporto tra la libertà di manifestazione del proprio pensiero e i diritti fondamentali della persona, in particolare il diritto all’onore ed alla reputazione, e sul bilanciamento di interessi e di valori che occorre porre in essere ogni qualvolta due diritti di pari dignità entrano in conflitto tra loro.
Per cercare di fare ordine, il principale punto di riferimento rimane, certamente, la libertà di espressione, diritto costituzionalmente garantito (art. 21 Costituzione), assurto oramai al rango di “pietra angolare della democrazia” altresì in ambito europeo (art. 10 CEDU; Regolamento UE 11 marzo 2014, 235, par. 11) ed internazionale (art. 19 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), che ha visto i confini della propria operatività fortemente condizionati dal costante progredire della tecnologia.
Invece, i diritti della persona, trovano fondamento nell’art. 2 Costituzione, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Carta di Nizza. Hanno la caratteristica di: assolutezza (ossia possono essere fatti valere erga omnes), necessarietà, inalienabilità, imprescindibilità e tendenziale non patrimonialità.
I diritti della persona, soprattutto i c.d. attributi morali della persona, tra i quali il diritto all’onore (che abbiamo detto essere il valore sociale di un determinato soggetto dato dall’insieme delle sue doti morali) ed alla reputazione (la stima di cui un soggetto gode nel suo ambiente sociale e professionale), entrano spesso in conflitto con la libertà di manifestazione e comunicazione del pensiero.
Tuttavia, non essendo affatto semplice discernere l’illecito dalla libera manifestazione del pensiero, autorevole dottrina afferma che “nell’ideale braccio di ferro tra l’art. 21 Cost. e l’art. 2 Cost. (che afferma il valore, centrale nel nostro sistema giuridico, della persona umana) si debba dare prevalenza alla tutela della persona”.
Naturalmente internet, oltre alla facilità di comunicare, permette quella di informare pubblicamente (o di disinformare) in tempo reale, anche con brevi messaggi virali che possono avere la lunghezza di un tweet. Questo aspetto, su basi e comportamenti errati, può ingigantire lo scontro fra le due tipologie di diritti di cui hai parlato poco fa. Come si comporta la giurisprudenza a tal proposito?
Ovviamente, a complicare il quadro, l’esistenza di internet e la sua crescente importanza nella vita quotidiana di milioni di individui fa sì che, mediamente, gli “internauti” siano molto più spregiudicati nell’esprimere le proprie opinioni in rete di quanto non lo siano nella vita reale.
Mediante questo mezzo, infatti, l’ingiuria e la diffamazione hanno la possibilità di “globalizzarsi”: fatte salve le barriere linguistiche, un’ingiuria postata a Roma su un sito internet può essere letta a Pechino o a Sidney.
In presenza di un numero esiguo di pronunce giurisprudenziali che concernano direttamente il mezzo ‘internet’, per far chiarezza nella fattispecie della libera manifestazione del pensiero, soccorrono le pronunce consolidate che la Cassazione ha formulato in materia di libertà di stampa, cui si associa un carattere professionale e, conseguentemente, un preciso apparato di vincoli e regole.
Nello specifico, per muoversi nell’ambito della libertà di pensiero, secondo la Suprema Corte, occorre che sussistano determinati requisiti:
– l’interesse al racconto, ravvisabile quando anche non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la pubblicazione;
– la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, nel che propriamente si sostanzia la cd. continenza, nel senso che l’informazione di stampa non deve trasmodare in “argumenta ad hominem” né assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro;
– la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l’oggettiva verità del racconto” (Cass. civ. Sez. III, 18-10-2005, n. 20140).
Non può in ogni caso ignorarsi come, nel caso dei social networks, che l’assenza di controlli e sanzioni analoghe a quelle legalmente previste per gli editori costituisca fattore di rischio per l’immissione di notizie fasulle nel circolo delle conversazioni online.
Tuttavia, mentre per l’espressione non è possibile sostenere che esista un obbligo generale di dire il vero e, dunque, che la norma costituzionale tuteli solo le espressioni vere o verosimili; per l’informazione è possibile, almeno (e forse solo) in linea teorica, individuare limiti alla diffusione di fatti falsi al fine di tutelare altri diritti o gli stessi interessi costituzionalmente rilevanti che pure la libertà d’informazione protegge, come appunto il processo politico e democratico.
Per ovviare a queste criticità, tra il 2006 e il 2008 è sorto in ambito ONU un progetto per la creazione del c.d. Internet Bill of Rights, una vera e propria Dichiarazione dei diritti in Internet.
Fortemente voluta da Stefano Rodotà e Laura Boldrini, la Dichiarazione è stata adottata in Italia il 28 luglio 2015 dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi a Internet, allo scopo di dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale ed elaborare principi e linee guida nell’uso della rete. E’ stata, tuttavia, presto “dimenticata” nonostante l’approvazione unanime della mozione parlamentare che impegnava il Governo: “ad attivare ogni utile iniziativa per la promozione e l’adozione a livello nazionale, europeo e internazionale dei principi contenuti nella Dichiarazione”.
Nel caso di diffamazioni, parte dell’opinione pubblica considera come attenuante la rabbia, a volte quasi giustificata come un elemento normale di reazione anche in circostanze in cui si ha torto… Ma fino a che punto?
Attenzione a non capovolgere la situazione giuridica.
Le cause di giustificazione, dette anche esimenti o scriminanti, sono situazioni particolari, in presenza delle quali, un fatto che di regola è vietato dalla legge penale viene imposto o consentito dalla legge e, quindi, non può ritenersi antigiuridico.
Tra le cause di giustificazione comuni che si applicano, solitamente, alla diffamazione vi sono l’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere (ex art. 51 c. p. – si pensi all’ipotesi del diritto di cronaca del giornalista o al legittimo esercizio del diritto di critica).
Ai sensi dell’articolo 599 del c.p., comma 2: “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”: Lex videt iratum, iratus legem non videt.
Si pensi alla condotta di colui che instauri una relazione sentimentale con il coniuge dell’offensore, contrastante con l’obbligo di fedeltà reciproca dei coniugi stabilito dall’art. 143, comma secondo, c.c. (Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 31177 del 28 luglio 2009).
In altri termini, è la rabbia che, deus ex machina, “guida” l’azione diffamatoria del soggetto agente a dover essere provocata da un fatto ingiusto del soggetto passivo del reato di diffamazione.
Non viceversa.
A prescindere dagli schieramenti politici, nell’era dell’hate speech dove il ragionamento e il dialogo pacato diventano debolezze e “asfaltare” attraverso l’aggressione preventiva la norma, c’è una disparità eccessiva fra conseguenze su individui o gruppi e (possibili) pene inflitte. Penso sia alle minoranze etniche, che a categorie di cittadini molto fragili quali i disabili o anche individui indipendenti, non legati ad organizzazioni strutturate, presi di mira dal “branco”.
Cosa ne pensi a riguardo? E quali sono i reati “collaterali”, connessi anche alla privacy?
La questione fin qui discussa diviene ancor più complessa in riferimento al fenomeno dell’hate speech.
Una delle principali problematiche, difatti, consiste nell’individuazione di un mezzo efficace di contrasto all’hate speech che non contraddica l’esigenza di protezione di una libertà fondamentale.
Se è vero che tale espressione si affermò già negli anni Novanta, con la comparsa dei social networks sono emersi nuovi dilemmi e contraddizioni da risolvere. Secondo i principi CEDU, le restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero, perché possano essere applicate, devono perseguire obiettivi legittimi. Sono poste fuori legge le forme più gravi d’odio rectius quelle che rappresentano un rischio effettivo per interessi di carattere generale o diritti altrui altrettanto rilevanti.
L’orientamento consolidato della CEDU è nel senso della limitazione eccezionale della libertà garantita dall’art. 10 della Convenzione con condanna a pena detentiva (ancorché sospesa) solo: “qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza”.
Le difficoltà poste dai social networks sono costituite essenzialmente dal possibile anonimato degli autori dei contenuti, dalla permanenza nel web dei messaggi d’odio e dalla loro capacità di diffondersi in piattaforme ed ambienti virtuali differenti da quelli della prima pubblicazione.
A ciò si aggiunge l’inesistenza di un’Autorità sovranazionale che si occupi specificamente di queste materie e che possa coordinare le azioni promosse nei singoli Stati.
Un primo passo significativo è stato mosso nel maggio 2006, con l’adozione, da parte di importanti Internet Service Providers (Facebook, Twitter), piattaforme di condivisione (YouTube), compagnie multinazionali (Microsoft) di un codice di condotta per il contrasto all’hate speech online che li impegnava a rimuovere i contenuti d’odio online entro 24 ore dalla loro pubblicazione.
Nonostante ancora oggi il principale problema sia rappresentato dalla mancanza di un significato comune al fenomeno dell’hate speech, possiamo considerare un importante passo avanti nella lotta all’hate speech il piano di azione presentato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite il 18 giugno scorso.
Sia in privato che in pubblico, certi atteggiamenti, in particolare se reiterati, possono provocare danni irreparabili soprattutto in chi ha difficoltà a difendere la propria reputazione. Penso al “revenge porn”, a “crocifissioni” via social o anche ai danni di reputazione determinati in privato e/o in gruppo con la diffusione di comunicazioni e contenuti privati di altro tipo. Come possono agire queste persone, se prive di mezzi o di un’adeguata “platea” di sostenitori? La diseguaglianza può colpire anche qui…
Nel quadro fin qui delineato, tra i fenomeni più preoccupanti per la carica offensiva insita nelle sue condotte tipiche vi è il c.d. revenge porn, ossia la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate.
Fino all’agosto 2019, non esistendo alcuna legge diretta a punire tali condotte specifiche, in Italia le vittime potevano trovare tutela in impianti normativi differenti.
Si pensi, ad esempio, all’articolo 167 del codice della privacy, titolato proprio “il trattamento illecito di dati, effettuato senza consenso”, che disciplina fattispecie penalmente rilevanti punite con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Anche la legge 71 del 2017, in materia di disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del c.d. “cyberbullismo”, spesso veniva usata come scudo protettivo delle vittime del revenge porn.
Una tutela, questa, davvero poco incisiva dal momento che la scelta di non introdurre norme penali si fonda su un approccio al fenomeno che parte dalla rilevazione sociologica secondo la quale bullismo e cyberbullismo sono fenomeni che riguardano esclusivamente il mondo dei minorenni.
Apparendo del tutto insufficiente per gravità e peculiarità del fenomeno del revenge porn, per mezzo della Legge 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. Codice Rosso), che ha introdotto modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, viene introdotta all’art. 612-ter del codice penale una fattispecie ad hoc, diretta a sanzionare il fenomeno del revenge porn.
La nuova fattispecie di reato punisce “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde, senza l’espresso consenso delle persone interessate, immagini o video sessualmente espliciti, destinati a rimanere privati – con – la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro”.
La stessa pena si applicherà anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, diffonda a sua volta recando danni alla vittima.
Sono disciplinati, infine, il reato di “pornografia virtuale”, che si applica in caso di immagini pornografiche del tutto false, ed il più grave reato di pedopornografia, reato punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000.
Venendo ai mezzi a disposizione delle vittime, possiamo distinguere tre diversi livelli di sostegno: le forze dell’ordine, gli avvocati e le associazioni di categoria ed altre forme di aiuto (pensiamo a realtà come Odiare ti costa, Permesso negato o Chi odia paga, che, a vario titolo, possono risultare preziose).
È molto importante, in primo luogo, rivolgersi all’Autorità di pubblica sicurezza al fine di sporgere querela. Sebbene la vittima abbia 6 mesi di tempo per farlo, il consiglio è quello di denunciare prima possibile i fatti. Il tempismo è fondamentale per fronteggiare tutti i reati informatici.