Pier Paolo Pasolini: genio e martire. Ringraziamolo e riflettiamo con Uccellacci e uccellini
Il sodalizio fra Pasolini e Totò portò alla realizzazione del film più amato dallo stesso regista, nato il 5 marzo 1922. Opera ancora oggi attuale, fa ben comprendere l’arretratezza culturale e l’ipocrisia che attanaglia l’Italia, paese che ha dilaniato le sue riflessioni senza mai "assimilarle", dove l’autore, identificabile come un profeta laico, subì 33 processi e più di 100 denunce

Pier Paolo Pasolini: genio e martire. Ringraziamolo e riflettiamo con Uccellacci e uccellini
Il sodalizio fra Pasolini e Totò portò alla realizzazione del film più amato dallo stesso regista, nato il 5 marzo 1922. Opera ancora oggi attuale, fa ben comprendere l’arretratezza culturale e l’ipocrisia che attanaglia l’Italia, paese che ha dilaniato le sue riflessioni senza mai "assimilarle", dove l’autore, identificabile come un profeta laico, subì 33 processi e più di 100 denunce

Pasolini

di Francesco Carini

«Io vivo senza rapporti con la piccola borghesia italiana. Io ho rapporti o con il popolo o con gli intellettuali. La piccola borghesia sì, però è riuscita ad avere rapporti con me, e li ha avuti attraverso i mezzi che ha in mano, sia la magistratura che la polizia e intentato una serie di processi alla mia opera […] ».
(Da “Pier Paolo Pasolini. Cultura e società”, di Carlo di Carlo, 1967 )

Quando si parla di profeti, normalmente il pensiero va ad un essere in grado di “predire” il futuro in nome di una divinità. Il termine si può appunto tradurre letteralmente con: “colui che parla al posto di”, ma, quando si pensa a Pier Paolo Pasolini, anche se può essere considerato un profeta laico, difficilmente lo si assimilerebbe a un intellettuale che parla al posto di qualcun altro, perché la ricerca di libertà sostanziale, non fittizia, è stata una fra le sue caratteristiche peculiari.

Ha sicuramente subito influenze importanti da parte di autentici giganti quali Antonio Gramsci (per citarne uno), ma sinceramente, in qualità di “profeta”, non portava che la sua parola, quella di nessun altro. Al contempo, si può definire un martire, non solo per la tragica fine del 2 novembre 1975, quanto per i 33 processi subiti e le oltre 100 denunce, che, unite agli attacchi di parte della stampa, lo dovrebbero rendere oggi una figura ancora più mitica, capace di sopportare ciò che difficilmente può reggere un uomo normale. Come disse lo storico Paolo Mieli nel documentario Rai “Pier Paolo Pasolini: il santo infame”: «era pronto a prendere su di sé queste ritorsioni, […] a volte col sorriso sulle labbra».

Nato il 5 marzo di 99 anni fa, poeta, scrittore e regista poliedrico, P.P.P. ha rappresentato una figura più unica che rara nella cultura italiana, soprattutto nel cinema. Stando a quanto lui stesso ha affermato il 28 gennaio 1970 durante un’intervista nel corso del programma Cinema 70, si possono distinguere due differenti momenti nella sua attività, in corrispondenza a un cambiamento sociale ed economico dell’Italia:

I primi miei film, da “Accattone” a “Il Vangelo secondo Matteo”, da “La ricotta” ad “Edipo re”, li ho fatti sotto il segno di Gramsci. E infatti nei miei primi film mi sono illuso di fare opere nazional-popolari, nel senso gramsciano della parola e quindi ciò consegue di rivolgermi al popolo, al popolo come classe sociale ben differenziata dalla borghesia, almeno in modo ideale naturalmente, così l’aveva conosciuto Gramsci e come io stesso l’avevo conosciuto da giovane, compresi tutti gli anni ’50.

La “Trilogia della vita” composta da Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974) era ancora in cantiere ed erano state distribuite da pochi anni pellicole quali Teorema (1968), Porcile (1968) e Medea (1969), ma, probabilmente, la maturazione a cui fa riferimento P.P.P. coincide con Uccellacci e uccellini (1966). Con questo lungometraggio (il più amato dallo stesso cineasta), in cui inizia la sua collaborazione con Totò (continuata in La Terra vista dalla Luna e Che cosa sono le nuvole?), si delinea il passaggio a cui si è sopra accennato coincidente con quello storico-sociale che stava attraversando il paese, e che, durante la stessa trasmissione, Pasolini ha così descritto:

È successa poi quella che si chiama la crisi in un certo senso positiva della società italiana, cioè il passaggio dell’Italia da un’epoca in parte a carattere agrario, artigianale, paleo-capitalistico, a una nuova epoca del benessere, del capitalismo.

L’intervista continuerà con la critica alla società di massa, in opposizione a cui Pasolini realizzerà dei film da lui stesso definiti “apparentemente anti-democratici, aristocratici”, perché antitetici a quella medesima società che in realtà è tirannica per eccellenza. Ma, come accennato poc’anzi, è forse Uccellacci e uccellini l’opera che determina il passaggio alla seconda fase (anche se sotto alcuni profili potrebbe essere considerata Edipo re).

È da sottolineare che questo sarà il penultimo film del poeta di Casarsa prodotto da Alfredo Bini, cioè l’uomo che ha contribuito in modo determinante alla realizzazione del primo ciclo pasoliniano, incentrato maggiormente sugli ultimi  e sulla lotta per la sopravvivenza (anche se ovviamente non scevro da ulteriori riflessioni).
Già con Accattone (1961), il regista friulano si era imposto nel panorama cinematografico con un linguaggio puro, capace di arrivare al nucleo di temi fondamentali quali le disuguaglianze e la povertà, che la maggioranza degli intellettuali italiani non hanno trattato con la dovuta attenzione o con la giusta obiettività, e verso cui (riferendosi agli scrittori) così si espresse lo stesso Pasolini dalle pagine de L’Europa letteraria:

«Quanto agli scrittori italiani dovrebbero anzitutto imparare a memoria “Letteratura e vita nazionale” di Gramsci e poi smettere di considerare la cosa più importante del mondo il tozzo di pane per la famigliola».

Come già evidenziato in un precedente articolo del 2019, Ugo Casiraghi, nella prefazione del volume Accattone, definiva Pasolini: «regista di sé stesso, e quindi artefice totale dell’opera», oltre che ad annoverarlo fra: «quegli autori che “vedono” interamente il film prima di farlo» e questo perché c’erano in lui una vision e degli ideali davvero sentiti, che non soltanto venivano dalle letture, bensì dall’analisi dei suoi oggetti di studio, in particolare delle borgate, e, nonostante l’amore per la letteratura, come affermò lui stesso alla trasmissione L’approdo (1967):

«Ho scoperto che il cinema è qualcosa di ancor più interessante, visto dal punto di vista filosofico che da quello linguistico. In realtà il cinema non è altro che la realtà… Diciamo così: il cinema è la lingua scritta della realtà».

Pertanto, la macchina da presa diviene il mezzo attraverso cui il Maestro di Casarsa porta sul grande schermo immagini e un linguaggio nuovo, che spesso la piccola borghesia italiana non vorrebbe né sentire, né vedere, e, utilizzando anche la comicità di De Curtis, il messaggio arriva con una forza maggiore, quasi dirompente, sotto il piano pedagogico, morale e artistico.
Come confermò Pasolini il 21/03/1966 nel corso del programma “Anteprima settimanale dello spettacolo”, Uccellacci e uccellini è assimilabile a una favola-apologo (dall’intento più ideologico che moralistico), anche se, usando le sue stesse parole: «gli uccelli che compaiono nel film sono gli uccelli pronipoti delle favole di: Fedro, Esopo, La Fontaine».

Totò Innocenti e il figlio Ninetto (lo stesso De Curtis e Ninetto Davoli) sono i protagonisti dell’opera (di cui non si farà una recensione completa, ma si analizzeranno alcuni punti), accompagnati nel loro girovagare fra le periferie romane da un corvo (la cui voce è prestata da Francesco Leonetti), che, da quanto viene sottolineato attraverso una didascalia: «[…] è un intellettuale di sinistra – diciamo così – di prima della morte di Palmiro Togliatti».

Totò e Ninetto Davoli nel film Uccellacci e uccellini di Pasolini
Totò e Ninetto Davoli nel film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini (1966)

I due attori, in un flashback, interpreteranno anche due frati: Frate Ciccillo (Totò) e frate Ninetto (Davoli), che si troveranno investiti del duro compito di dover convertire due categorie: i falchi e i passerotti, con i primi che rappresentano i ceti dominanti e i secondi quelli subalterni. I due gruppi sembrano ascoltare il messaggio d’amore portato dal frate prima agli uni e poi agli altri, ma, al primo incontro, tutta l’azione di conversione sembra svanire quando un falco si fionderà su un passerotto uccidendolo. A tal proposito risulteranno straordinarie le parole di Frate Francesco, volte a incoraggiare l’azione di Ciccillo e Ninetto, che appaiono essere la continuazione del messaggio del vangelo in chiave contemporanea:

sappiamo che la giustizia è progressiva e sappiamo che man mano che progredisce la società si sveglia la coscienza della sua perfetta composizione e vengono alla luce le disuguaglianze, stridenti e imploranti che affliggono l’umanità. Non è forse quest’avvertenza della disuguaglianza fra classe e classe, fra nazione e nazione, la più grave minaccia della pace?

In queste poche frasi si nasconde non un annuncio consolatorio, anche perché consolazione e speranza non stavano nelle corde di P.P.P., bensì di sensibilizzazione all’azione per la costruzione di una società più giusta, in cui gli ultimi non possano essere destinati a soccombere ai potenti. Ma questa bella “parabola” simil francescana in salsa marxista non è soltanto l’unica parte in cui i due picari, sempre in movimento per le periferie della capitale, incontreranno un’azione moraleggiante e pedagogica di un maestro, scontrandosi però al contempo con la dura realtà.

C’è un momento topico, che permette di accrescere in Totò e Nino la consapevolezza che le disuguaglianze rappresentano dei mali per l’umanità, esattamente quando i due si recano in un casolare a chiedere a una coppia che vive in estrema miseria il denaro dovuto. La signora, che cucina un nido di rondine al marito, li prega di parlare piano affinché i bambini non si sveglino o scendano dalla stanza in cui si trovano, dal momento che da 4 giorni non vedono cibo, ma Totò, dopo aver minacciato di adire le vie legali e di pignorare casa e terreno, replicherà impassibile:
«Signora mia, io non so cosa dirvi, io non ci posso far niente. Pregate la Madonna piuttosto, anziché me: busis is busis».

Totò nel film "Uccellacci e uccellini" di Pasolini
Totò nel film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini (1966)

Scimmiottando la frase business is business, Totò si allontana dall’abitazione, ma senza che il corvo gli dica prima: «Beh, […] attento che un pesce grosso non mangi voi». E difatti, dopo un pò, a casa di un creditore (chiamato l’ingegnere) che attendeva il pagamento di una certa quota di denaro, schiena a terra, con dei pastori tedeschi sull’addome e con una festa in corso nell’altra parte dell’abitazione con ricchi invitati, Totò si dovrà giustificare adducendo tutte le scuse che lo hanno portato a non saldare il suo debito (da una gelata che aveva rovinato il raccolto dei suoi broccoletti a “un’impresa” di Ninetto, autore di un incidente a causa di cui aveva distrutto una 600 con il trattore). Ma, per la legge del contrappasso, l’ingegnere risponderà quasi come aveva fatto Totò con la povera donna: «io sono soltanto un uomo d’affari, faccio gli affari, ci tengo agli affari. Quindi, datemi i soldi, sennò vi faccio finire in galera senza tanti complimenti».

È importante notare come solo in seguito a quest’umiliazione, padre e figlio capiscano quanto sia importante una reazione, poiché il rapporto di autorità dato dalla superiorità economica del ricco creditore è assimilabile a quella loro nei confronti della povera famiglia alla quale non avevano lasciato neanche i materassi di lana.

Inoltre, un dialogo fra Ninetto e Totò permette di comprendere il passaggio dall’era paleocapitalista a quella di un capitalismo industriale, che, tramite la maturazione dei protagonisti, dovrebbe indicare il cambiamento e la consapevolezza della forza del collettivo (non della semplice massa) nei ceti non abbienti. In seguito all’umiliazione subita, Ninetto comprende lo scopo positivo del Corvo, e, meditando vendetta accanto a un segnale stradale che indica la strada per Cuba, esordirà con: «quanno entro in fabbrica, er primo sciopero che famo […]». Fino ad allora non si era parlato di fabbriche, bensì di ettari di broccoletti o di terreno, pertanto, nel lungo peregrinare a cui si è fatto solo cenno nel presente articolo, si assiste alla maturazione dei due uomini accompagnata dal canto partigiano “Fischia il vento” e succeduta dalle immagini di repertorio del funerale di Palmiro Togliatti.

È come se il rapporto padre-figlio venisse rinsaldato da una nuova presa di coscienza che li connette a milioni di altri esseri viventi, non semplicemente legata all’accumulo di risorse in ambito familiare e, soprattutto, a un atteggiamento sadomasochista, che si limita a sfruttare e ad essere sfruttati (parafrasando Erich Fromm). Si può quindi intravedere un progresso a livello umano, che però non è per forza connesso allo sviluppo (differenza terminologica sostanziale sottolineata da Pasolini anche in una delle sue ultime interviste).

L’opera terminerà comunque con l’assassinio del corvo da parte dei due protagonisti, che lo mangeranno dopo averne ascoltato le parole con cui ha praticamente previsto la sua morte, segnale che la coscienza è stata smossa, ma il processo di maturazione è ancora lungo (ruolo che potrebbe far pensare in parte anche a quello del prof. Senigaglia, interpretato da Marcello Mastroianni nel film I compagni, di Mario Monicelli):

I professori, vanno mangiati in salsa piccante, diceva Giorgio Pasquali, però, chi li mangia e li digerisce, diventa un pò professore anche lui.
[…] È passata la mia ora. Le parole cadono nel vuoto. Non pensi però signor Totò che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. Oh, io piango solamente su me stesso. È umano, no? Per chi sente di non contare più.

Facendo riferimento a queste battute, se, nonostante l’uccisione, il corvo (la cui saggezza è messa a servizio della collettività) ha verosimilmente lasciato qualcosa che è stata digerita da Totò e Ninetto, vedendo la situazione attuale dell’Italia, sia sotto il profilo intellettuale, ma anche politico e sociale, l’impressione è che gli insegnamenti di personalità del calibro di Pasolini e Gramsci non siano stati recepiti, mangiati o assimilati, ma semplicemente dilaniati, come fanno le belve feroci.

Ad eccezione di casi isolati, non si vede l’ombra di una presa di coscienza civica o di spinte “intellettuali” che non siano paragonabili a quelle che Gramsci delineò criticamente ne La questione meridionale, dove gli stessi intellettuali erano visti come i difensori dei ceti dominanti, il cui unico scopo era quello di: «conservare lo status quo», senza: «nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti o progressi» (e che, per alcuni versi e con le dovute differenze, potrebbe anche far pensare alle critiche rivolte da Leonardo Sciascia ad alcuni insegnanti semplicemente fieri della loro posizione, in quella preziosa opera rappresentata da Le parrocchie di Regalpetra).

In molti casi, l’intellettuale medio appare un portavoce delle classi dominanti, quasi un caporale (come il direttore di giornale interpretato da Paolo Stoppa in Siamo uomini o caporali) la cui funzione è volta a tenere a bada una massa di diseredati e nullatenenti (distratti o impegnati in una drammatica guerra fra poveri), con una grottesca umanità ad orologeria che esce fuori solo quando non vengono lesi gli interessi del capitale, evitando di comprendere che ridurre alla fame il popolo ha portato nella storia a catastrofi e tenerlo sempre distante o distratto dalla consapevolezza dei suoi diritti rappresenta un’onta per il ricordo di intellettuali impegnati, che hanno messo la conoscenza veramente a servizio dell’umanità, rimettendoci anche la vita.

[…] Io so distinguere morti da morti e vivi da vivi… Pasolini era veramente un uomo adorabile e indifeso… Era una creatura angelica, una creatura che abbiamo perduto e che non incontreremo più come uomo, ma, come poeta diventa ancora più alta la sua voce e sono certo che pure gli oppositori di Pasolini oggi cominceranno a capire il suo messaggio e quello che ci ha voluto dire… E ci servirà molto […]
(Eduardo de Filippo)

 

Con il seguente articolo non si vuole proporre un’analisi completa di Uccellacci e uccellini (a cui si dovrebbe dedicare ben altro spazio), film caratterizzato da spunti ed elementi straordinariamente originali quali i titoli di testa e di coda cantati da Domenico Modugno (senza dimenticare le splendide musiche di Ennio Morricone, la fotografia di Delli Colli o le scenografie di Dante Ferretti), né tantomeno un saggio attraverso cui delineare in modo esauriente una figura quale quella di Pier Paolo Pasolini, obiettivo che risulterebbe quantomeno pretenzioso. È invece una riflessione su un artista che ha rappresentato autenticamente nel XX secolo il significato della parola genio, considerando la sua poliedricità e la capacità di interpretare i cambiamenti e i lati oscuri dell’Italia, paese che, in linea generale e in fondo, non lo ha mai compreso e meritato.

04/03/2021 – © Francesco Carini – tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale.

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