Il 22 marzo di 95 anni fa nasceva Nino Manfredi, voce dei “sospesi”

Fonte: blog Homo Sum di Francesco Carini – Linkiesta.it – 23/03/2016
In un periodo storico in cui l’Italia si ritrova nuovamente con le valigie in mano e con una netta e profonda spaccatura fra le classi sociali, si assiste quasi ad una regressione. Dagli anni ’80 in poi, la gente emigrata in Germania in precedenza era cominciata a tornare, mentre molti tabù, come quelli religiosi, erano stati dissipati da una fresca ventata di scienza. Adesso, ci si ritrova con la “meglio gioventù” pronta a lasciare il proprio paese e con milioni di persone sul lastrico, o ancor peggio con migliaia di ragazzi che gongolano al solo pensiero di uno stage (forse) retribuito. Situazione non di certo felice, ma quantomeno realistica.
Alla fine del XIX secolo, Giovanni Verga diede inizio al Ciclo dei Vinti, progettando la scrittura di 5 opere, di cui soltanto due sono state portate a termine: I Malavoglia e Mastro – don Gesualdo. Sicuramente non poco, dal momento che questi due romanzi hanno fatto la storia della letteratura mondiale e lasciato un segno tangibile in altri grandi autori del ‘900.
Anche se in versione differente, un altro grande artista è riuscito ad imprimere attraverso le sue interpretazioni nella mente dello spettatore un’immagine, che non è solo dello sconfitto, bensì dell’uomo in bilico, che non riesce a prendere una posizione per paura di perdere le miserie o le pochissime certezze possedute. Questo attore è stato Nino Manfredi, nato a Castro dei Volsci il 22 marzo di 95 anni fa.
L’eclettico romano non fu soltanto un mostro sacro della commedia all’italiana, bensì il protagonista di pellicole epiche che sanno tanto di pugno allo stomaco dello spettatore per la loro forza espressiva.
In particolare, Manfredi tocca l’apice della perfezione nel rappresentare l’equilibrio instabile dell’italiano attraverso tre film:
1) Per Grazia Ricevuta (di Nino Manfredi);
2) Pane e Cioccolata (di Franco Brusati);
3) Il Giocattolo (di Giuliano Montaldo).
Nella prima opera, in cui l’attore ciociaro è anche regista, la religione è la persecuzione che impedisce al protagonista, Benedetto Parisi, di esprimere il suo vero Io. Cresciuto in un paese di campagna con la zia, una single provocante e “poco colta”, il bambino mostra un’iperattività ed un carattere discolo, con una forte curiosità per l’intimità femminile, soffocata dall’idea del peccato, inculcatagli dall’intera comunità. In seguito ad uno pseudo-miracolo di cui è “vittima”, verrà spedito in un convento dove resterà per più di quindici anni in attesa del segno, che, nel suo immaginario, gli dovrà fornire Sant’Eusebio e che permetterà di capire la sua strada. Nonostante gli sforzi, il priore (Mario Scaccia) ed il prete confessore capiscono che il problema di Benedetto è di origine psicologica e pertanto verrà mandato nel mondo, dove, dopo aver mostrato problemi con l’altro sesso, riuscirà ad aprirsi attraverso il farmacista toscano Oreste Micheli, interpretato da un eccelso Lionel Stander, e la figlia Giovanna, di cui si innamorerà. La morte di Oreste, che ha rappresentato il padre mai avuto, lo segnerà e lo spingerà a tentare il suicidio, nonostante la compagna attenda da lui un figlio. Però, anche questa volta non riuscirà a morire per quello stesso miracolo che gli ha rovinato la vita, bloccando lo sviluppo della sua personalità.
Nella seconda opera, il migrante Giovanni Garofoli è partito da Roma per andare in Svizzera alla ricerca di fortuna, ma una sventura dietro l’altra, compresa la morte del suo datore di lavoro (per poco), l’imprenditore ed evasore fiscale italiano interpretato da Johnny Dorelli, gli impediscono di trovare la sistemazione che avrebbe permesso alla sua famiglia di raggiungerlo. La bellissima Elena cerca di aiutarlo, ma l’insieme delle circostanze causa in Giovanni una spersonalizzazione, non sapendo più se tornare in patria e mostrare tutta la sua italianità o adeguarsi al sistema svizzero, tingendosi addirittura i capelli di biondo. La sua indecisione manifestata puntualmente nella fuga dal treno che lo avrebbe dovuto riportare a casa al solo sentire alcune canzoni del repertorio nazional-popolare, fa sì che Nino resti in bilico fino alla fine, senza una presa di posizione.
Ne Il giocattolo, il tema della mancanza di identità viene messo in evidenza e determinato dal carattere buono del personaggio. Nella provincia settentrionale, il ragioniere romano Vittorio Barletta: sfruttato, con una moglie ammalata, impaurito dalla violenza che lo circonda e stufo di una vita noiosa, rimane scioccato da una rapina in cui resta ferito. Soppiantato sul lavoro da un ex maresciallo. Senza un amico e con un capo che lo sfrutta, trova in Sauro Civera (Vittorio Mezzogiorno), il fratello mai avuto, che lo porta a sparare per la prima volta al poligono di tiro. Da lì in poi, la sua sete di vendetta per la morte dello stesso (alla quale assiste), ma anche per la rabbia nei confronti della sua misera esistenza, lo porterà ad una serie di sparatorie mirate non solo a difendersi, bensì a sfogarsi. Tutto questo verrà fermato solo dalla moglie, la quale gli sparerà per non permettergli di ferire ancora e vendicarsi di altra gente per i torti subiti in passato, portando tutto alla normalità e a vedere con gli occhi della verità il presente e il recente grigio passato fatti di noia e solitudine.
Nonostante i soggetti interpretati dall’attore italiano siano degli sconfitti ed abbiano in comune il danno causato dalla perdita dei propri mentori, un aspetto fondamentale differisce la coppia Per grazia ricevuta – Pane e cioccolata, da Il giocattolo. Infatti, se dal punto di vista stilistico le prime due pellicole hanno una una netta linea di continuità per ciò che concerne la sceneggiatura, grazie alla mano di Manfredi, l’aspetto che più salta all’occhio è il senso di vuoto e di indecisione che pervade il protagonista. Pertanto, più che di ciclo dei vinti, a cui può essere assimilato Il giocattolo, si può parlare di ciclo dei sospesi, con lo stesso Manfredi che interpreta mirabilmente l’indeciso, restando con il dubbio se tornare a casa in Pane e cioccolata o essere un miracolato in Per grazia ricevuta.
Alfine di spiegare meglio la differenza, bastano tre spezzoni di queste opere, uno per ogni film.
In Per Grazia Ricevuta, Benedetto, dopo aver assistito alla “blasfemia” positiva di Stander, dice:
«Ecco, ecco, io me sento come tra qui e qui… Io me sento due, due che stanno sempre a litigà, a fà a cazzotti. E mentre loro due se menano, io me stanco e nò glia faccio più. Poi tanto vince sempre quello, er più fregnone e più figlio de mignotta».
Manfredi, ascolterà Stander come un padre, che lo aiuta a cambiare, ma la sua improvvisa morte lo getterà nel baratro in tutti i sensi, e, proprio al risveglio dal coma dopo il tentato suicidio, la parola “miracolo” lo farà tornare alla posizione di eterno indeciso da cui era partito.
In Pane e Cioccolata, il senso di estraniamento è alquanto palese in una scena in particolare, quando il cameriere Garofoli è inviato a lavorare in una fabbrica alquanto grottesca, in cui una famiglia meridionale ha il compito di uccidere i polli e vive felicemente in condizioni a dir poco pessime. Manfredi si alza da tavola chiedendo:
«Scusate, scusate, solo una domanda. Chi sono io? Scusate, ognuno è quello che è, non è mica colpa sua. E voi siete anche molto gentili. Ma io, chi sono? Mi spiego, voi siete italiani ed io sono italiano, ma io sono come voi?».
Non è solo un dubbio che angoscia e riguarda la possibilità di essere come quella famiglia, bensì qualcosa di più profondo, legata alla mancata cognizione del propria identità. Tant’è vero che durante l’intera pellicola, Manfredi oscillerà fra la mancata accettazione della propria nazionalità, fino alla celebre rivendicazione della stessa in un pub elvetico, durante la visione del match Svizzera-Italia, quando, tinto di biondo, non ce la farà più a fingersi straniero e grida al gol di Capello: «Gooooool. Sò italiano, embé!».
Però l’indecisione lo perseguiterà fino alla fine, quando sarà capace di rifiutare il permesso di soggiorno, consegnatogli alla stazione da Anna Karina, per poi fermare il treno qualche chilometro dopo sotto il traforo del Sempione. Risulta epico l’epilogo, con l’inquadratura sul volto dello stesso romano, sospeso in un tremendo limbo dantesco.
Proprio qui sta la differenza con Il giocattolo, dove il personaggio principale, seppur oscillante fra la sua vera personalità da bambino, come lo definirà la moglie, e quella di cecchino infallibile, alla fine troverà nella morte la sconfitta, ma anche la verità.
«Non riesco nemmeno a morire ammazzato da una pistola come si deve. Amore, abbiamo passato una vita al buio dicendoci soltanto: “lo vuoi al burro o lo vuoi al sugo”… Ma Sauro quel giorno non poteva portare dei bignè, invece che una pistola? E chi ti sente? Sono tutti davanti al televisore».
Le sue ultime parole sono chiaramente sintomatiche della visione raggiunta, al contrario di Benedetto Parisi e Giovanni Garofoli, che continueranno a restare paralizzati nei loro dubbi amletici, Vittorio è conscio del suo fallimento e della sconfitta subita nel corso dell’intera esistenza.
In breve, a prescindere dal ciclo dei vinti o dei sospesi, tramite la sua straordinaria bravura, Manfredi è riuscito a trasportare sullo schermo le paure dei suoi personaggi, ma anche a raffigurare in pieno gli interrogativi e il senso di vuoto che le nostre generazioni stanno attraversando pure oggi. Il rapporto di odio/amore con la religione, la crisi di identità del migrante e la repressione del piccolo borghese (anch’egli trapiantato fuori dal suo contesto) non sono altro che maschere che entrano sul palcoscenico della storia del nostro paese, ciclicamente indossate impeccabilmente da un artista ricordato principalmente per: C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, Cafè express o In nome del papa re, che è comunque riuscito ad imprimere tocchi di immensa classe anche in pellicole meno note, ma ugualmente importanti.